Ci troviamo lungo il cammino per la Cappadocia, alla ricerca di qualcosa per cui vale veramente la pena attraversare la vasta Turchia e raggiungere il cuore dell’Islam. Se cerchi, se preghi, se aspetti, se hai pazienza – e se non ce l’hai devi trovarla! – arriva la fede, o meglio arrivano i dervisci. Un forte colpo di fulmine e tuona il fato, scaraventandoti davanti a loro in una dimensione onirica in cui ogni nervosismo di viaggio svanisce. Iniziano a volteggiare come tornado, senza sosta, sempre più veloce, quasi costringendo chi li osserva a chiedersi a cosa possa portare tale frenesia. La risposta non viene dalla loro voce ma dai panneggi sinuosi delle loro gonne lunghe.
È una danza sacra attraverso la quale questi uomini devoti perdono consistenza diventando aria per trasformarsi in vento e liberarsi di tutto ciò che è terreno. Il Semà dei Sufi, detto anche “la danza dell’estasi”, simbolizza l’ascesa spirituale, un viaggio mistico dall’essere a Dio, in cui l’essere si dissolve ritornando poi sulla terra. È una danza altamente emblematica e spirituale, l’espressione della realtà divina e della realtà fenomenica, in un mondo in cui tutto, per sussistere, deve ruotare come gli atomi, come i pianeti in orbita attorno al sole, come il pensiero.
«Il semà è la pace per l’anima dei vivi,
e chi conosce ciò raggiunge la pace dell’anima.
Colui che desidera il proprio risveglio,
è quello che già dorme in un giardino.
Ma per chi dorme dentro a una prigione
il risveglio è soltanto un dispiacere.
Assisti al semà là dove si celebra un matrimonio,
non quando c’è un funerale, o in un luogo di dolore.
Chi non conosce la propria essenza,
colui ai cui occhi è nascosta questa bellezza lunare,
che se ne fa della danza e del tamburo?
Il semà è fatto per l’unione con l’Amato;
e per quelli che hanno il viso rivolto alla qibla
ecco, il semà rappresenta questo mondo e quell’altro.
E più ancora: il cerchio dei danzatori di semà
che dolcemente volteggiano ha nel suo centro la Ka`ba.
Se desideri la miniera della dolcezza, ecco, essa è là,
e se ti accontenti d’una briciola di zucchero, ecco:
questo dono è gratuito.»
(tratto da Dìvàn-e Shams-e Tabrizî, del teologo e poeta mistico persiano Gialal al-Din Rûmî 1207-1273)
I danzatori sono coperti di un mantello nero (simbolo della materialità e dell’ignoranza), sotto il quale indossano un abito bianco (simbolo della luce e del distacco dall’ego). Ricchezza, coraggio, cultura, identità non servono a nulla, la materia non serve a nulla. La vera fede infatti non ha forma, non ha una rappresentazione nitida. È tutto mosso, tutto fumoso. È il caldo respiro di Allah che sussurra di lasciarti andare. I beni terreni non hanno più valore, ogni essere che si spinge verso questo viaggio molla tutto, anche e soprattutto se stesso. È questo che mi ha insegnato la Cappadocia.
Tra la solidità della roccia e la freschezza della neve ho imparato un darsi incondizionatamente, la potenza del sacrificio, della leggerezza suprema, dello spogliarsi di tutto e del concedersi alla fede per ricavarci nulla e tutto, tutto e nulla. La Turchia è grande ed esplorarla non è semplice: si inizia sempre in grande, “col botto” e quindi Istanbul, città che mi ha sedotto così tanto da volerci vivere una vita intera. È una stazione di arrivo e di partenza verso altre mete, altre regioni che si presentano progressivamente meno globalizzate, meno viste o meno quotidiane, dove non c’è mai abbastanza tempo per conoscere e assaporare tutto. Facile perdersi nei fumi della shisha (lo strumento per fumare tabacco, conosciuto anche come narghilè); difficile accontentarsi di un solo “chai” (il çay è il tè tipico di queste parti) che sa sempre di casa e di poco. I turchi ne sono grandi bevitori, dall’alba al tramonto; quasi una pratica identitaria ma anche un’esperienza sociale e un segno di ospitalità. Allora chiedi un altro chai e ancora un altro, e ti innamori di una terra che non ti amerà mai.
di Paolo Ferraina – fotografo