Rabano è qui, e lucemi dallato / il calavrese abate Giovacchino, / di spirito profetico dotato
(Dante, Paradiso, canto XII, vv.139-141).
La figura di Gioacchino da Fiore è studiata in tutto il mondo e moltissime sono le pubblicazioni che la considerano. Non vogliamo qui parlare dei tanti manoscritti del calavrese abate o delle pubblicazioni che lo riguardano, ma vogliamo soffermarci sulla sua esperienza da monaco e abate cistercense. Gioacchino nasce in Calabria tra il 1130-1135 nel casale di Celico. La fonte principale e più attendibile della sua vita resta la biografia che ha scritto di lui l’abate Luca Campano, suo amico, scriba e compagno in diverse missioni.
In occasione della crociata del 1148-1149 Gioacchino si reca in Oriente e visita Costantinopoli, la Siria e la Palestina. Ritorna in Calabria nel 1150 circa ed entra tra i Cistercensi della Sambucina di Luzzi e vi resta per circa un anno. In Sambucina dovette compiersi la sua formazione culturale iniziale, con particolare predilezione per gli studi delle sacre scritture che – come afferma Antonio Crocco nel suo Gioacchino da Fiore. La più singolare ed affascinante figura del Medioevo Cristiano) – «… costituiranno il centro della sua vasta produzione letteraria e faranno di lui il più originale esegeta del Medioevo e uno dei più profondi conoscitori delle Sacre Scritture del secolo XII».
Da lì a poco si sposta in una località vicino Rende, dove incomincia a predicare agli abitanti. Ma resosi conto che per il ruolo di predicatore deve avere il permesso del Vescovo, decide di recarsi a Catanzaro per farsi ordinare prete. Durante il viaggio, vicino al monastero di Corazzo, parla con un “nobilis grecus monachus”. Questi gli fa delle domande su quale sia il suo scopo e quali siano i suoi propositi, raccontandogli la parabola del servo infingardo che non mette a frutto e non accresce il talento affidatogli. Solo in quel momento Gioacchino si decide alla conversio ed entra come monaco nel monastero di Corazzo, nei pressi dell’attuale Carlopoli. Dopo un periodo di noviziato diventa priore e nel 1177 abate di Corazzo.
Egli non accetta subito la carica e si rifugia inizialmente nel monastero della S. Trinità presso Acri. Ma qui non resta molto, poiché l’ambiente risulta poco edificante; ritorna così in Sambucina dove grazie all’abate Simeone e ad altri personaggi viene convinto a ritornare a Corazzo e ad accettare l’incarico di abate. L’incarico durerà circa un decennio. Nel periodo in cui è abate Gioacchino dà prova di una versatilità di comportamento che mira a conciliare il governo della comunità monastica con la dedizione alla vita contemplativa. Il suo obiettivo primario è quello di affiliare il suo monastero di Corazzo all’Ordine Cistercense, che in quel momento è ben visto dalla Chiesa di Roma e difeso anche dai governanti. Inizialmente Gioacchino si rivolge alla Sambucina. Ma questo monastero, dove egli era stato per ben due volte, non accetta Corazzo come filiazione a causa della sua povertà e di quella dei suoi monaci: propter paupertatem, ut dicebat, et inopiam monachorum. Gioacchino, già noto anche fuori dai confini della sua regione, si rivolge pure all’abbazia laziale di Casamari, ottenendo la stessa risposta negativa, nonostante la stima riservatagli dall’abate Giraldo. Riceve comunque ospitalità per un anno e mezzo (1182-1183) al fine di poter scrivere le sue opere. A Casamari inizia dunque la stesura della Concordia, dell’Expositio e del Salterio. Nel 1186 si reca a Verona da Papa Urbano III, il quale rinnova l’autorizzazione a scrivere, e lo rinvia in Calabria incoraggiandolo a continuare le sue scritture.
di Flaviano Garritano – studioso di architettura cistercense