1944. Wietzendorf, Germania del Nord. Mani nude per scorticare il filo spinato e un coltellino scout, poi il cardine di una porta come martello, per ricavarne scheletri di statue.
Un armistizio non è pace immediata. Da una parte, la posizione di salvatori degli Alleati nei confronti di quegli italiani che avevano scommesso su Mussolini, uscito dal tracciato delle sue promesse. Dall’altra, “quel traditore del mio vecchio amico è nemico contro cui vendicarsi,” su una scacchiera di rinnovati equilibri e giochi armati. Dunque, non è stato giubilo per i soldati italiani dislocati in Francia, nei Balcani e soprattutto in Germania, dopo l’8 settembre 1943. Più di seicentomila tra soldati, marinai e avieri italiani furono internati in campi di concentramento tedeschi, in balia delle volontà di Hitler. L’alternativa: tornare in Italia al fianco della nascente Repubblica di Salò, oppure permanenza nei campi di concentramento. Con fierezza, il 75% degli internati continuò a resistere. E allora nel freddo del Natale di Wietzendorf, il mistero-miracolo dei valori come candele accese.
La firma di chi c’è stato, nell’orrore, nei ricordi donati per costruire un presepe come rocca di ostinata resistenza. È il Natale 1944 nel lager di Wietzendorf. Vi sono internati alcuni militari italiani rei di non collaborare più col nazismo. Uno di questi, il sottotenente di Artiglieria nonché artista milanese Tullio Battaglia, con mezzi di fortuna realizza un presepe. A guerra finita, stremato ma sopravvissuto, lo trasporta in Italia. Solo la grossa statua del bue rimarrà in Germania, perché risulta difficoltoso portarla assieme agli altri pezzi. Teste, mani, piedi, e zampogne con le assicelle su cui si dormiva: infami tavolette 70x30cm. Un cestino proveniente dalla calza della befana per i figli del capitano Gamberoni, di una Bologna in cui aveva progettato di far ritorno prima di Natale. Ma poi, i programmi che non coincidono con le pieghe della guerra.
Il sacchetto di pulizia del tenente bersagliere Peroni di Milano per l’abito di cotone rigato della contadina. Il filo sottratto a qualche straccio colorato per cucire i vestiti. Le corde di chitarra del tenente Zoffoli di Forlì per le aureole, pelo del pastrano del capitano Bertolotti di Como per barbe e capelli. Tessuto sfilacciato della musetta da cavallo del tenente Mori di Arezzo per il pelo dell’agnello. Ritagli di vecchie lattine per armature, corone e doni, poi le mostrine del tenente Vezzosi di Milano, un lembo della camicia azzurra del tenente Alviano di Alessandria per il guerriero longobardo. Il lembo della tonaca del cappellano, il francescano padre Ricci, per il saio di san Francesco. L’Italia con la forza dei suoi simboli, tra cui il tricolore, in questa dichiarazione di vita.
Per i magi, un turbante rimediato da un pezzo di pigiama del tenente bersagliere Montobbio di Milano, poi una collana con un braccialetto del tenente di artiglieria Mendoza di Vigevano. Gesù Bambino ricavato dal fazzoletto di seta del tenente Bianchi di Milano. Pizzi tagliati dai fazzoletti donati dalle fidanzate ai soldati partiti in guerra. Un lavoro reso possibile dalla luce di una candela, ravvivata con un grammo di margarina a testa, sottratto alla dose giornaliera di quindici grammi a testa. Forse è vero, e questa volta pare opportuno sbilanciarsi: “Non di solo pane vive l’uomo” (Matteo 4, 4 e Luca 4, 4).
Il presepe si trova attualmente esposto alla destra del coro, sopra il sarcofago dei Santi Nabore e Felice, nella Basilica di Sant’Ambrogio a Milano. E pochi giorni fa, dalla Germania, è arrivata anche la statuina del bue.
di Gloria Ballestrasse