Attraversando a ritroso l’estensione del cammino artistico di Max Marra si scopre l’essenza generativa dei suoi lavori creativi, si individuano le diverse fasi di ricerca, altrettante espressioni di un continuum operativo coerente in cui si placa, in modi sempre nuovi e diversi, l’urgenza dell’agire creativo, un agire che rimanda sempre e comunque ad una motivazione etica di fondo.
Fin dall’inizio è la materia la dimensione elettiva dell’indagine di Marra; è la materia l’estensione in cui si dispiega il suo procedere esplorativo, di cui coglie le suggestioni evocative, le infinite possibilità formali, sempre inedite e feconde, quelle stesse che la natura organica dei materiali suggerisce. Egli, nella massa di residui oggettuali, di scarti, di rifiuti che ingombra il quotidiano, legge una superiore similitudine con il vivere sociale che respinge ai margini, che abbandona gli ultimi, tutta quell’umanità ferita, offesa dai soprusi dei giorni. D’altronde, il movente originario di tutto il suo fare artistico è sostanzialmente umano e sociale. Non ha paura di “sporcarsi” le mani nella materia Marra. Il suo – per dirla con Luigi Bianco – è il “lavoro di una mano pietosa che non teme di estetizzare la sporcizia”.
Recupera poveri resti di cose scongiurando la loro estrema dissoluzione, il disfacimento della loro esistenza oggettuale, recuperandoli ai processi dell’arte, alla dimensione sacrale dell’opera. Riesuma cose la cui parabola storica è declinata. È il periodo a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta quello in cui la sua ricerca si indirizza in forme di integrazione tra scultura e pittura, in cui realizza assemblaggi polimaterici, installazioni che nascono da contaminazioni linguistiche, da ibridazioni frutto di un processo conoscitivo che affonda l’indagine in un’immensa distesa traboccante di materie e materiali. Le sue opere sanno di scultura e di pittura senza esserlo, riecheggiano tracciati concettuali, di informale-materico, rievocano sentieri di un’arte povera che scava nelle emozioni, degli altri e proprie, un’arte che cura le ferite della quotidianità, ne soccorre e lenisce le lacerazioni con la sua prodigiosa capacità creativa che si nutre dei valori essenziali della memoria, senza lasciarsi imbrigliare da regole, ma dando sostanza poetica alle vibrazioni dei materiali. Nel periodo ‘88-91, Marra realizza i cicli di opere Francesco è solo e A.S.P (l’acronimo sta per Appunti Sul Ponte).
Max Marra, A.S.P., 1989
Max Marra, Francesco è solo, 1990
Tra la fine degli anni ‘80 e i primi anni ‘90 la produzione di Marra si arricchisce di nuovi lavori in cui è ancora protagonista la materia; una materia inquieta, tormentata che assomma in sé l’angoscia, la tragicità del vivere, le ansie, le sofferte decisioni della vita morale. Sono le opere della serie Pance ferite in cui la materia è pulsazione visibile, energia organica compressa che provoca l’aggetto del supporto, il suo rigonfiamento, spingendo fino al limite estremo di resistenza il tessuto formale dell’opera, tendendolo fino alla sua lacerazione. La pancia racconta l’epica del corpo; è il centro della vita fisica di cui regola i ritmi della corporeità, è densità magmatica, in continuo sommovimento; essa è per Marra il centro del mondo, di cui si può avere conoscenza solo facendo esplodere la sua volumetria affinché da essa fuoriescano tutto il marcio di cui è piena, tutte le negatività, tutto il malessere accumulati dall’essere umano.
Max Marra, Pancia ferita, 1990
Nella sua corporeità di materia, la “pancia ferita” è carne viva che sconvolge la coscienza. L’artista, da sensibile medicante, si prende cura delle lacerazioni, amorevolmente le cuce, invocando la cicatrizzazione della pelle sofferta, squarciata dalle ferite, percorrendo il corpo dell’opera con un colore gravido di sofferenza in cui vibra comunque la speranza della luce. Quella speranza della luce attraverso cui sublimare le umane sofferenze, attraverso cui liberarsi dalle “zavorre-pance”, dall’opprimente peso della corporeità. E la materia febbrile, sensibile, leggera delle opere Code comete è il mezzo che permette all’artista di librarsi in volo negli spazi tersi e sereni dell’anima, verso i cieli della pulizia morale.
Max Marra, Pancia ferita, 1991
Già nel 1992, dal nero antracite del riquadro-cornice (frammento essenziale dell’opera), dalla sua densa fisicità, dai suoi flebili chiarori metallici, emergono le volumetrie, morbide e sinuose, delle Dune d’oriente; esse vibrano di echi profondi, di accordi che si smorzano nella tensione di vigorose geometrie. Nello stesso periodo Marra realizza Linee di tensione, lavori d’assemblaggio polimaterico molto grafici ed essenziali. Con esse sperimenta la tensione di giochi geometrici leggeri e felici, propiziatori di verità che gli permettono di tendere le vele al vento dell’infinito. Nel 1994 nascono i Bianchi miraggi in cui la materia, animata da una ricca vita inferiore, cresce, si muove, spinge avanti il corpo dell’opera: è la pelle del cielo che si apre e si offre alle infinite variazioni dell’orizzonte temporale dell’uomo, alla spazialità della sua esistenza. La materia di Marra è carne sensibile, è corpo, ma è anche dimensione in cui giungono a soluzione le ansie, le sofferte decisioni della vita morale, in cui si scrive la storia, ora sublime ora impastata di terra, d’una esperienza umana, quella dell’artista stesso.
Max Marra – Duna d’Oriente, 1997
Al corpus di lavori Bianchi miraggi del ‘94 rimandano le opere Campi di cosmos che, in una complementarità di pensiero creativo e di valori cromatici, si alternano alle opere Portali silenti, del 2009. Portali silenti sono pause di silenzi in cui il nero, denso e bituminoso, diventa spartito segnico, armonia di linee, scrittura che affiora tra i sedimenti pittorici, che attraversa il ripetersi di rilievi diventando forza creativa, sostanza poetica.
Il percorso evolutivo di Max Marra appare come una sorta di itinerario spirituale, un graduale cammino di purificazione dalle scorie del mondo, di ascesi dagli abissi della sofferenza umana verso l’orizzonte radioso del cielo, in un continuo interrogarsi sul senso più profondo dell’esistenza, sul destino ineluttabile dell’uomo. In questa dimensione di serenità esistenziale, di volo mentale nei “cieli di cosmos”, liberi e assoluti, Marra ripercorre cammini già attraversati.
Con la serie delle Timbriche, infatti, riprende una ricerca del 1989, vivificandola di nuova linfa, di nuova sostanziale pienezza, di variazioni strutturali esistenziali e libere, di accadimnti segnici che ne determinano la singolare unicità e intensità poetica. Oltre alle Timbriche, altri bianchi impreziosiscono la recente produzione di Marra, altri Cieli, Tracce di cosmos in cui la materia inquieta smorza le sue asperità in ulteriori modulazioni, in impalpabili sentieri di luce, in un viaggio esplorativo non più oppresso dalla temporalità delle cose, dalla loro ansiosa fisicità. La materia di Marra è, ora più che mai, candida distesa da cui affiorano e si propagano portati d’energia luminosa, in cui vibrano mutevoli tessiture di bianco, luoghi di intensa spiritualità.
Max Marra: l’inquieta bellezza della materia – Veduta parziale della mostra (25 luglio – 7 settembre 2021) curata da Teolinda Coltellaro al MARCA di Catanzaro.
Teodolinda Coltellaro – critico d’arte
Fotografie di Luigi Angiolicchio