Portare sensatamente un contributo critico sull’opera di Paolo Gubinelli non è semplice, e per certi versi può apparire quasi temerario, considerando che hanno scritto di lui molti dei massimi esegeti dell’arte italiana contemporanea, da Lara-Vinca Masini a Giulio Carlo Argan, da Enrico Crispolti a Luciano Caramel, da Paolo Fossati a Giovanni Maria Accame, da Pierre Restany a Cesare Vivaldi, da Carlo Belloli a Fabrizio D’Amico, da Bruno Corà a Claudio Cerritelli, da Giorgio Cortenova a Tommaso Trini. Insomma, Gubinelli è stato analizzato, posto nel giusto risalto, compreso e inserito a pieno titolo nell’alveo degli sviluppi delle arti visive aniconiche della seconda metà del XX secolo e poi dei primi due decenni del XXI. Uno degli esercizi tipici di chi voglia inquadrare l’attività e la vicenda creativa di un pittore consiste nel rinvenire ascendenze, individuare “parentele” formali o espressive, inserirlo in una “sequenza”. Si tratta di un’operazione necessaria e utile, perché consente con maggiore agevolezza il passaggio dalla critica alla storia. È più difficile, infatti, che gli isolati – ossia coloro che sono classificabili a stento, che sfuggono o si sottraggono a un’indagine di questo tipo – siano acquisiti dalla sintesi del racconto retrospettivo (così come, all’opposto, quelli che sono fin troppo amalgamati in una tendenza o in uno stile, quasi da confondersi con essi e smarrire la propria individualità).
D’altro canto, nulla mi distoglierà mai dall’idea che, essendo l’individuo, nella sua unicità, irriducibile a qualsivoglia generalizzazione, in qualunque chiave e prospettiva essa sia (siamo tutti diversi, c’è poco da controbattere!), anche nell’ambito artistico, pur nell’ovvia esigenza di stabilire linee di connessione e sviluppo, di ravvisare rapporti e scambi, di elaborare una “tassonomia” entro la complessità fenomenologica delle manifestazioni espressive e formali, resti il problema della comprensione piena e autentica della personalità del singolo. Anzi, volendo portare alle estreme conseguenze il ragionamento, si potrebbe giungere alla conclusione che l’opera stessa sia un unicum, e che discettare sulla globale produzione di un artista, o anche soltanto su un ciclo o su una serie di lavori, rischi di non centrare l’obiettivo di una perfetta intellezione del suo quid più profondo e genuino. Gli interrogativi metodologici che mi rivolgo non sono certo originali: basterebbe por mente a Walter Benjamin e alle riflessioni sul concetto di “critica” come “completamento” dell’opera ed “esperimento” su di essa, per ammutolire e riscoprirsi epigonali pensatori di pensieri già pensati. Tuttavia è pur vero che si tratta di domande non più così comuni, in una realtà di studi spesso appiattiti in maniera banale su questioni irrilevanti o secondarie, quasi sempre d’importazione statunitense (dalla dialettica fra modernismo e anti-modernismo ai gender studies), supinamente accolte da chi dovrebbe semmai attingere a ben altre radici e fonti di riflessione critica, europee e in special modo italiane e francesi, e da queste ripartire per lo sviluppo di un metodo sensato di analisi ed ermeneusi.
Mi si perdoni dunque l’inattualità di questa premessa teorica, che è sgorgata spontanea dalla meditazione sull’opera di Paolo Gubinelli, in particolare dei suoi lavori realizzati con tratti graffiti sulla carta mediante l’utilizzo di lame, con colori in polvere, con acquerelli, con piegature del supporto, con frottages, con scavi nel polistirolo, e inoltre dei rilievi su ceramica, su porcellana e su vetro, delle incisioni su plexiglas, fino alla dimensione dell’installazione ambientale. La varietà tipologica è ampia, ma non frastornante, perché consente di cogliere, allo sguardo di chi sia educato al saper vedere, una continuità di ricorrenze formali e di intenzionalità e forsanche attitudini psicologiche ad esse sottese (sulle quali, però, sarebbe arbitrario e un po’ presuntuoso pronunciarsi). A costruire il campo dell’immagine è il segno: un segno sottile e spesso irregolare, che ha trovato nella dinamica della scalfittura il proprio modo precipuo d’estrinsecarsi. Non lo ritengo emblema o metafora di una ferita, il che sarebbe troppo scontato, bensì di una ricerca di esprit de finesse, che si appalesa in una scrittura che è un personalissimo linguaggio, un sistema di forme simboliche da decodificare con pazienza ed esercizio. In questo lessico troviamo strutture di linee pressoché parallele, simili a frammenti di tetragrammi o pentagrammi (privi però di note: il riferimento alla grafia musicale sarebbe estrinseco), segmenti che si incrociano – creando angoli ottusi e acuti – in sequenze di reticolati, segni ondulati e curvi in dialettico dialogo con queste, diagonali o pseudo-diagonali, fasci di rette che attraversano l’intero campo visivo dell’opera, talvolta rastremate, raggruppamenti irregolari, punti singoli e autonomi o organizzati in successioni. In alcuni casi è la sola configurazione lineare a determinare la manifestazione fenomenica del lavoro di Gubinelli, in una monocromia bianca che in realtà è apparente, giacché i graffi e le incisioni provocano comunque chiaroscuri e quindi gradazioni di grigi, mostrando una sensibilità dell’artista per le facoltà insieme “costruttive” e poetiche della luce. Là dove è impiegato il colore, la sua funzione è, per così dire, contrappuntistica rispetto al segno, alla stregua che, in una fuga, il controsoggetto, o meglio il divertimento, nell’accezione di transizione fra esposizioni e/o riesposizioni del tema. Ciò non significa certo che esso costituisca un dato esornativo o secondario; anzi, quando compare, diventa un fattore significante ed essenziale nell’economia dell’opera, nell’equilibrio degli elementi, arrivando addirittura a esserne il fulcro, il centro calamitante. Accade anche che sia utilizzato in chiave lirico-espressiva, evocativa, oppure, soprattutto nei rilievi in ceramica, associato a determinate forme geometriche.
Immancabilmente, quale che sia il trattamento delle componenti visive, nonché il ricorso ad alcune piuttosto che ad altre, in combinazioni anche assai variate, con evidente gusto del ritmo e della concinnitas, la sottigliezza di Paolo Gubinelli emerge come una qualità caratteristica di una maniera davvero personale di fare arte, che si colloca al di là e di fuori da tendenze precise, fermo restando l’ovvio presupposto della lezione degli astrattisti degli anni dai Dieci ai Trenta, di Lucio Fontana e degli Spazialisti.
di Paolo Bolpagni – Direttore, Fondazione Centro Studi Ragghianti, Lucca
Paolo Gubinelli è in mostra dal 30 ottobre al 24 novembre
Museo della Stampa – Via Lanfranco, 6/8 – 26029 Soncino (CR) www.museostampasoncino.it