Le tele di Cafagna e le terrecotte di Piredda in mostra a Roma
Domenica 21 novembre Von Buren Contemporary ha presentato la mostra nothing’s gonna change my world con le opere dell’artista romana Lucianella Cafagna e della scultrice italo-canadese Claire Piredda, a cura di Michele von Büren e con i testi di Antonio Monda e Valentina Orengo. La mostra, che chiuderà il prossimo 8 dicembre, è stata appositamente scelta per celebrare l’apertura del nuovo spazio della galleria in Via Giulia 13, a Roma, e il suo cambio di nome, passando da RvB Arts a Von Buren Contemporary.
Il lavoro di Lucianella Cafagna e Claire Piredda è incentrato sui temi dell’infanzia e della prima adolescenza, espressi da Cafagna su tela e da Piredda attraverso le sue figure in terracotta. Entrambe hanno uno sguardo acuto e sensibile nel cogliere quella fase critica dello sviluppo che vede il bambino entrare nella prima età adulta, quella condizione esistenziale piena di assoluti e contraddizioni che caratterizza questo delicato rito di passaggio. Il titolo della mostra nothing’s gonna change my world (niente cambierà il mio mondo) – l’iconico ritornello di Across the Universe dei Beatles – è perfetto per il momento significativo che Cafagna e Piredda stanno esplorando. Le loro giovani creature sono allo stesso tempo figure di incertezza, figure di gioia, figure di conflitto e figure di sensualità in erba, intrappolate tra la loro nuova autocoscienza e un senso di perdita del loro stato precedente. Sono proprio i laghi di tristezza, onde di gioia articolate nel testo di Across the Universe. Il pathos e i dolori della crescita sono rappresentati davanti a noi, riportandoci a quell’interludio in cui siamo combattuti tra il bisogno di affermare la nostra nuova esistenza e un ultimo coraggioso tentativo di mantenere le cose come sono.
Lucianella Cafagna. L’attesa e il pudore
testo critico di Antonio Monda – docente e scrittore
Prima di confrontarmi con le opere che compongono la nuova mostra di Lucianella Cafagna, ho voluto soffermarmi su un suo quadro che ho la fortuna di possedere. Si tratta di un ritratto della madre Aurora, che non ho mai conosciuto e della quale non so quasi nulla. È un quadro dominato cromaticamente dall’azzurro, che evidenzia in primo luogo un amore profondo, oserei dire struggente, nei confronti di una donna bellissima. Silenzioso e nello stesso tempo potente, il ritratto emana anche altre emozioni, che ho ritrovato in queste nuove opere: un anelito di protezione, che Lucianella sembra richiedere e offrire, lo spaesamento di fronte al mistero delle passioni, e una sensazione di incanto, che in superficie può apparire come solitudine, ma in realtà è l’attesa per qualcosa che dia un compimento a ogni scelta e sentimento. Lucianella non cade nella tentazione di offrire risposte, ma pone, innanzitutto a se stessa, delle domande, e i nuovi quadri, nei quali l’azzurro lascia spesso il posto al colore della ruggine, testimoniano un itinerario di ricerca che continua a essere tenuto in vita da questi interrogativi.
Sono opere vibranti a dispetto dell’apparente immobilità, e comunicano la sensazione che i personaggi ritratti non siano fissati in qualcosa di fermo e definitivo, ma piuttosto sospesi in un momento nel quale l’attesa assume una dimensione di epifania e catarsi rispetto a una condizione di fragilità. È da questa sospensione, insieme attonita e palpitante, che scaturisce l’anelito di protezione, mentre la combinazione di questi elementi antitetici genera un’atmosfera ipnotizzante e misteriosa, che sembra esser tale anche per l’artista. Sono quadri che riescono a essere ricchi di contenuto e lievi nel linguaggio, densi nell’elaborazione e gentili nel risultato, perché Lucianella ha scelto con coraggio la sincerità sul virtuosismo e l’intellettualismo, e i gesti, le azioni, spesso le esitazioni, preludono a qualcosa che possiamo soltanto immaginare, a volte sperare. E anche quando l’atmosfera si tinge di malinconia, continuano ad avere la grazia e il calore della condivisione.
Nel quadro che prediligo, una bambina vestita di nero con lo sguardo volto per terra viene illuminata da una luce che proviene dalle sue spalle: l’ombra è riflessa su un muro con un gradino, ma quello che interessa Lucianella non è il gioco geometrico della rifrazione, peraltro impeccabilmente realizzato, ma il sentimento che sta vivendo la bambina. L’espressione è mesta, ma i tratti sono sfumati, e ne risulta una sensazione di pudore ed empatia: il dolore può essere alleviato proprio perché è immortalato in una dimensione di sospensione, e l’afflato è frutto del quadro stesso. Un’altra bambina, vestita di rosso, sta scendendo le scale in un edificio avvolto nel buio. In questo caso il mistero è già evidenziato dal luogo, ma ancora una volta interessa la dimensione catartica: la piccola è ritratta in una zona luminosa, l’unica, e la sua sembra una scelta salvifica. Anche lei ha la testa china e un atteggiamento malinconico, ma sembra che questo appartenga già al passato, perché ha scelto la strada giusta. La composizione è preziosa e le scale sono immortalate con maestria, ma il punctum, per dirla con Barthes, è nei tratti ancora una volta sfumati, che ci consentono di poter leggere il suo itinerario verso la luce.
Una terza bambina, ritratta su una giostra, si volge a vedere una compagna seduta dietro di lei: è mirabile il modo con cui viene catturata la sua espressione euforica, ma il mistero questa volta è affidato alla reazione della compagna, ritratta di spalle. Sta sorridendo anche lei? Ha paura? È annoiata? Si ha la sensazione che l’artista si identifichi soprattutto con quest’altra bambina e abbracci il mistero della sua reazione, mentre la piccola si staglia contro un cielo azzurro che sovrasta un caseggiato imbrunito da un sole prematuramente tramontato. Intorno, le altre figure sono soltanto ombre, o non hanno la dignità di un intero corpo. In questi quadri gli spazi sono ampi e deserti, ma ancora una volta quello che sembra dominare non è la solitudine dei personaggi ritratti, ma l’affermarsi di personalità anche giovanissime, che manifestano dignità proprio perché consapevoli della loro fragilità: una bambina vestita di bianco insegue una palla sospesa in aria in uno spazio aperto e misterioso, composto da una scalinata ed enormi blocchi di cemento. Il mistero più grande tuttavia è rappresentato proprio dalla palla, che sembra aspettare l’arrivo della bambina: ancora una volta un’attesa.
Non è meno misterioso lo spazio buio che avvolge, in un altro quadro, il campetto di calcio dove giocano dei ragazzini: sembrerebbe quasi una selva oscura che circonda un luogo di luce, ma nel buio si stagliano porte e ingressi di costruzioni circostanti.
Lungo questo itinerario pittorico segnato dall’attesa e dall’incanto è l’enigma degli sguardi che sembra appassionare Lucianella: un’altra bambina ha uno sguardo pensoso e appoggia il mento alla mano. Dietro di lei è ritratto un cane, in uno spazio senza tempo: è la piccola a investigare noi e la stessa artista, più quanto possiamo fare noi nei suoi confronti. Questa ambiguità arriva a volte a dare sfrontatezza alla fragilità, come nel caso di una ragazzina vestita di verde che sta scendendo le scale, o mescola la fragilità al pudore nell’immagine di un’altra ragazzina, nuda, che sta per tuffarsi in acqua: un ennesimo momento di attesa, epifania e catarsi.
Il fascino profondo e toccante di questi quadri sinceri sino allo spasmo è nel suggerito, nel non detto, a volte nel nascosto, e la compiutezza di queste opere piene di grazia trova la propria armonia in primo luogo nel pudore. Soltanto ora capisco perché mi ha sempre commosso il quadro che ho a casa: aveva dei bellissimi occhi azzurri, la madre Aurora, ma Lucianella ha preferito ritrarla con gli occhi chiusi e l’accenno di un sorriso.
Claire Piredda. Facciamo un gioco
Testo critico di Valentina Orengo – scrittrice e autrice tv
La prima volta che ho visto le piccole teste di Claire Piredda mi sono immaginata lei che, una volta finito di plasmare con le dita ciuffi di capelli, piccoli chignon, occhi, nasi, orecchie, colli sottili, ci soffiava sopra. Solo così, con un gesto magico, potevo spiegarmi tanta vita su quei visi ragazzini. D’altronde Claire conserva, nascosta nella piega del suo sorriso timido, una traccia minuscola ma indelebile di infanzia. Lei sa, quindi. È evidente che ricorda ancora, in modo preciso, com’è essere in quel momento in cui l’infanzia sta per finire e si capisce che sì, diventeremo grandi, ma per adesso è meglio andare a giocare,o rimanere assorti, appoggiati a un muretto perché è ancora troppo presto per buttarsi a corpo morto nel futuro. È il momento in cui sai che la vita ti attende e la guardi da lontano, per capire che promesse ti fa e ogni volta che ne mordi un pezzetto è un’avventura. È l’attimo prima che ti venga chiesto di pensarci davvero però. Per questo è un momento incantato. E solo grazie a un incantesimo un materiale plastico può conservare l’espressione precisa di quell’età che è poco più di un lampo.
Nello sguardo dei ragazzini di Claire c’è la poesia pura di chi riesce ancora a vedere l’essenza delle cose. E siccome la vita non è una faccenda su cui scherzare ecco che ci troviamo di fronte a facce serissime, perché a quell’età ogni cosa va presa sul serio, perché crescere è un compito difficilissimo e se ogni istante del presente è importante, lo è anche un girotondo.
Mi viene in mente Il sentiero dei nidi di ragno, la rabbia di Pin quando porta trionfante la pistola che gli uomini del bar gli hanno chiesto di rubare e viene trattato con indifferenza: «I grandi sono una razza ambigua e traditrice, non hanno quella serietà terribile nei giochi propria dei ragazzi eppure hanno anche loro i loro giochi, sempre più seri, uno dento l’altro, che non si capisce mai qual è il gioco vero».
Sarà per questo che guardando quegli occhi di creta ho quasi l’impressione che vedano di noi cose che noi non riusciamo più a vedere, sono perfino in grado di metterci un po’ a disagio perché sembra che sappiano della nostra triste condizione di adulti e che compatiscano la nostra ormai scarsa capacità di distinguere e comprendere l’essenziale.
Ma se in quelle piccole teste risuona già l’idea esaltante di essere lì lì per diventare una persona tonda e complessa, non c’è ancora il disincanto né la terribile tentazione di giudicare gli altri per definire se stessi. Quindi possiamo rimanere senza timore a contemplare, ammirati, la loro grazia mentre affrontano quella terra di confine, ognuna a suo modo. Basta osservare e mettersi in ascolto: ci puoi sentire piccoli accenni di ribellione o intravedere un minuscolo moto di rabbia. Sono palpabili ora l’attesa elettrica di qualcosa di straordinario, ora la ferita provocata da un’offesa, oppure la contemplazione di un pensiero aggrovigliato o ancora l’indolenza di chi preferisce aggrapparsi al bambino che non è quasi più, pur sapendo che durerà poco.
A volte puoi vederci anche passare attraverso un’ombra di preoccupazione e disappunto, come l’intuizione che un giorno, ripensando a quel tempo brevissimo, proveranno una straziante nostalgia.
Lucianella Cafagna è nata a Roma nel 1968. Ha studiato all’École Nationale Supérieure des Beaux-Arts di Parigi e ha passato un periodo d’apprendistato nello studio di Pierre Carron, pupillo di Balthus, esperienza che si è chiusa con una collettiva al Grand Palais. Nel 2011 ha partecipato alla 54ma Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia all’interno del Padiglione Italia e nel 2014 ha una voce a suo nome nell’Enciclopedia Treccani, dove è annoverata tra i venti artisti contemporanei più rilevanti del panorama italiano. Il suo lavoro è stato affiliato al Realismo magico della Scuola romana e infatti la sua ultima personale, nell’ottobre 2019, si è tenuta a Palazzo Merulana – prestigioso polo museale che ospita proprio della Scuola romana un’importante collezione.
Claire Piredda è nata a Montréal, Canada nel 1963. Artista versatile, a Roma ha studiato pittura all’Accademia di Belle Arti e scultura alla Temple Abroad Tyler School of Art, e ha frequentato l’Accademia Costume & Moda. Le sculture in terracotta non smaltata della Piredda si concentrano su busti troncati e figure di piccola scala, in colori che variano dall’ocra opaco al rosso. Rievocando il naturalismo della scuola scultorea francese del Settecento e con un elemento di ieraticità pensosità che rimanda a Arturo Martini, Piredda sfrutta al massimo la versatilità della sua materia. Attraverso la manipolazione abile e delicata dell’argilla, crea sculture espressive e cariche di emozioni mentre il suo approccio diretto con la materia prima le permette di mantenere fino in fondo una resa naturale e senza mediazioni.