Dal 24 novembre 2021, e fino al 30 gennaio 2022, la Basilica di San Saturnino – Rete Musei Civici di Cagliari ospita la mostra personale Apostoli di Antonio Porru, accompagnata dai testi critici di Gabriele Simongini, Giorgio Pellegrini, Nico Stringa, Alessandro Sitzia.
Antonio Porru presenta, dunque, la sua seconda importante mostra dopo ben venti anni dall’ultima all’Exmà di Cagliari, per esplicita scelta personale. In esposizione una serie di oltre 90 opere, raccolte in sei gruppi – Apostoli, Cieli, Terre, 1652 peste a Sanluri 2020 Pandemia, Testimoni, Terrecotte -, che dialogano profondamente con lo spazio architettonico: dodici ritratti replicati sei volte e inseriti in un retable di sei pannelli e dodici raffigurazioni di grande formato.
Antonio Porru, la verità di un’umanità che resiste
di Gabriele Simongini – critico d’arte
«Questo è un mondo in cui ciascuno di noi, conoscendo i propri limiti, conoscendo i pericoli della superficialità ed i terrori della fatica, deve attaccarsi a ciò che gli sta più vicino, a ciò che egli conosce, a ciò che può fare, ai suoi amici, alle sue tradizioni, ai suoi amori, per non finire disciolto in una confusione universale, senza sapere nulla, senza amare nulla». Come un lampo, vedendo gli “Apostoli” laici e i ritratti di Antonio Porru mi è tornata alla mente questa riflessione di Robert Oppenheimer che per la prima volta, con un invito aII’autenticità esistenziale, mi aveva fatto conoscere mio padre, tanti anni fa. E proprio questo ho trovato di fulminante nelle opere di Porru, la verità intensa ed ineludibile, anche se fragile, di un’autenticità che si personifica e ci guarda ad occhi spalancati con i visi di familiari, amici, conoscenti che danno vita, complessivamente, ad una sorta di confortante scialuppa di salvataggio nella caotica e spesso insensata tempesta che ogni giorno ci travolge.
Del resto, lo stesso Porru, parlandomi con ammirazione di un dipinto su tavola della seconda metà del Seicento concepito probabilmente come un ex voto di un committente miracolosamente scampato alla peste nel borgo di Sanluri, confessa la sua “volontà sincera di comunicare” e la sua “verità espressiva” come qualità tipiche non solo degli artisti ma anche della gente sarda, che egli condivide pienamente nella sua visione esistenziale e creativa. La vocazione artistica di Porru è popolare, nel senso più alto del termine e tale da accomunarlo, mutatis mutandis, a tre grandi artisti sardi come Costantino Nivola, Maria Lai e Pinuccio Sciola. I primi due, ad esempio, hanno concepito due straordinari progetti (Nivola ha ideato fin dal 1953, senza poterlo realizzare, “Pergola Village” per Orani, mentre Maria Lai ha dato vita a “Legarsi alla montagna”, nel 1981, ad Ulassai) per rafforzare i rapporti e le relazioni umane fra i cittadini, per fare rete, non in senso virtuale, e rendere evidente la necessità di creare una vera comunità. Nel caso di Porru questa vocazione popolare si esprime con la massima efficacia, da “cantastorie”, nei graffiti realizzati in tanti paesi della Sardegna, fra cui spicca quello di Sanluri, intitolato “Sinopie di un secolo incerto”, con i dodici “Apostoli” che come apparizioni emergono con la testa, le braccia e le gambe dai muri calcinati del Museo del Pane che diventa il loro corpo “bianco”. L’interno si proietta all’esterno e quelle figure, sedute, manifestano un’immediata propensione al dialogo e alla condivisione diventando messaggeri di autenticità tanto che si potrebbe immaginare qualcosa del genere per tutte le case del paese. Così tutte le opere raccolte nei sette gruppi che innervano la mostra sembrano in realtà frammenti di una sola grande opera murale e corale in cui trova immagine un’umanità concreta e primigenia, colta in tutta la sua sincerità.
A Porru non interessa essere originale quanto piuttosto mirare all’originario così come è primigenio per vocazione anche il segno inciso, potente ed essenziale ma anche leggero e lirico, che costituisce la matrice di queste opere più graffite che dipinte, nell’uso di tecniche e materiali semplici ed ascetici quali terra, carboncino, tempera o terracotta. È, questa, un’umanità che resiste al drastico, sconvolgente mutamento antropologico del nostro stare nel mondo sotto il dominio delle corporazioni hi-tech che ci cullano con la promessa di ogni meraviglia e di ogni soluzione per una vita migliore, appagante e cool, in una società ossessionata dal profitto, dal presente e dalla sua ininterrotta partecipazione mediatica e virtuale.
Gli “Apostoli” in particolare, col solo sguardo e con la loro semplice presenza autenticamente umana, danno testimonianza concreta della fatica, del lavoro, dell’impegno quotidiano di coloro che realmente sono le colonne portanti della famiglia e della società o perlomeno di quel che ne resta oggi. Non a caso, nelle opere in mostra, gli “Apostoli” sono rappresentati a figura intera quasi per sottolineare la solidità del loro ruolo mentre in quasi tutti gli altri ritratti emergono solo la testa e il busto e talvolta, come nella serie a tempera e carboncino del 2020, a quelle figure viene dato un andamento regolare, quasi oggettuale, tanto che alcuni sembrano assumere quasi la forma di vasi antropomorfi. Il gesto stesso di Antonio, così immediato ma anche così irrorato dagli echi dei ritratti del Fayum, del segno dolorosamente chirurgico di Schiele e della realtà folgorante ed umanissima di Giacometti, è un atto di resistenza per la sopravvivenza di un’identità specificamente umana, minacciata dal “capitalismo della sorveglianza”. Così, in un mondo dove sembra pericoloso perfino abbracciarsi e stringersi la mano e in cui i legami umani sono stati sostituiti dalle connessioni digitali, vien voglia di toccare queste opere così vitali, di sentirne le rughe e l’epidermide materica ma anche quel senso del tempo e della memoria (“La memoria è l’anima”, diceva Umberto Eco) che si portano addosso insieme ad una sorta di misterioso destino esistenziale.
Nel serrato faccia a faccia di questi ritratti con l’osservatore ogni descrizione ambientale è abolita ma si percepisce una costante tensione con lo spazio che isola e preme. In fondo Porru è incisore, pittore e scultore al tempo stesso e potrebbe ben condividere queste due riflessioni che rendono giustizia all’atto unico della mano nel suo rapporto, spesso imprevedibile ed accidentale, con la materia: per Giacomo Manzù “nella gestualità del corpo sta la relazione con il mondo, il modo in cui lo vedi, il modo in cui lo senti, il modo in cui lo possiedi” mentre per Magdalena Abakanowicz “tra me e il materiale con cui creo non c’è mediazione di strumenti. Lo scelgo con le mani. Con le mani lo formo. Le mani gli trasmettono la mia energia. Traducendo il concetto in forma, le mani trasmetteranno sempre qualcosa che sfugge alla concettualizzazione. Riveleranno l’inconscio”.
Non a caso, Antonio Porru sente e pensa con le mani dal punto di vista creativo. E nel dar vita a questi intensi “paesaggi dell’umano”, in cui le linee sensuali della sua zona d’origine si fondono con le fisionomie di volti conosciuti, restandosene a lavorare appartato ed incurante delle mode nei luoghi che lo hanno visto nascere, Porru fa venire alla mente la riservatezza e la ricerca tutta interiore di Osvaldo Licini, anche lui abbarbicato all’intimità del suo Monte Vidon Corrado ma capace di volare nei cieli altissimi dell’immaginazione poetica. Li lega anche la pazienza, la capacità di concepire una mostra come il distillato di un lungo e necessario percorso e non come smania di esibirsi a tutti i costi: nel caso di Licini passarono addirittura 23 anni fra la sua prima mostra personale, tenutasi nel 1935 nella milanese Galleria del Milione, e le due personali dedicategli nel 1958, pochi mesi prima della sua scomparsa, dal Centro Culturale Olivetti di Ivrea e dalla Biennale di Venezia; per Porru questa è la seconda mostra importante dopo quella aII’Exmà di Cagliari, nel 2000 e nei suoi auspici, per tener fede al ritmo ventennale, la terza dovrebbe tenersi nientemeno che nel 2040. Questi ritratti così intimamente, profondamente e integralmente umani sono accompagnati da opere segniche che richiamano i punti di riferimento fondamentali del nostro stare nel mondo, il cielo e la terra (i “Solchi”). E attraverso il messaggio umilmente etico di Porru che però non rinuncia a tendere verso l’alto, vengono alla mente le parole conclusive di Kant nella “Critica della ragion pratica“: “Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me”.
Il sandalo perduto
di Alessandro Sitzia – architetto, Museo archeologico nazionale di Cagliari
La descrizione dell’opera recente di Antonio Porru inizia dal ricordo del mio primo incontro dal vivo, presso il suo studio. Il percorso per raggiungerlo contiene la sintesi del suo lavoro sotto diversi profili: topografico, con l’attraversamento di Sanluri, il paese natio, la strada bianca, la collina denominata Su Cuccuru Santa Rita; figurativo e formale con l’armonica consistenza delle sinuosità dei tracciati e la rigida norma insediativa dei lotti coltivati; cromatico, con le dominanti della terra bruna, del bianco del pane e della calce. Un’immagine ancora nitida nella memoria è una lastra di arenaria di Serrenti posata a terra, finemente cesellata in altorilievo, apparentemente abbandonata e ormai integrata con il terreno, in parte coperta dal fogliame del suo giardino, gesto creativo e di ospitalità verso il visitatore. La materia è la sostanza dell’opera di Porru: la erode a volte con la fatica dello scalpello, a volte con la velocità del graffito su un intonaco di calce appena steso. Il segno è sempre deciso, complesso come la trama di un ragno, apparentemente caotico ma evidentemente non casuale. Il giusto tempo che richiede la lettura fa emergere il “filo” del racconto in un gioco di percezione e di rimandi. Ed è solo allora che iniziano a emergere i personaggi e i paesaggi urbani di arcana tradizione.
L’opera di Porru non si adatta allo sguardo veloce, al ritmo compulsivo imposto dall’era digitale abituata a consumare le immagini immediatamente disponibili e spesso volatili. La mente necessita di tempi adeguati, come il rituale di avvicinamento alla sua casa-laboratorio. Si coglie nella più recente produzione artistica di Porru un elogio della lentezza che diventa critica alla forzata digitalizzazione imposta dagli ultimi due anni. Le composte composizioni degli “Apostoli”, dove le figure intere sembrano voler evadere dalla bidimensionalità del supporto, diventano architetture globali, una perfetta giunzione tra forma e funzione, volutamente dichiarata nelle scritte, magnificamente corsive, che accompagnano le figure. Fortu l’operaio, Miriu l’atleta, Ettore il liutaio e Ignazio il vigile condividono la stessa sedia, a testimonianza che queste persone esistono, sono reali e hanno posato in uno spazio fisico alla presenza dell’artista. Oltre ad essere vere hanno anche un lavoro, rappresentato ed enfatizzato, con una attitudine che li rende parte di un sistema sociale in cui Porru si inserisce a pieno titolo. E se è impossibile non amare lo sguardo sapiente di Remigio Maistu, che pare giunto a Su Cuccuru direttamente dal capolavoro di Pellizza da Volpedo, l’inquieto Tonino, il burattinaio, è fissato in una realtà potenziale un attimo prima che, come“forma unica”, si muova dalla sedia.
I volti e i gesti passano in rassegna e ognuno lascia in sospeso qualcosa, un dettaglio, un approfondimento. Il desiderio è tornare spesso a far loro visita per scrutare se, nel mentre, qualcosa si sia aggiunto al brano descrittivo, volutamente incompleto, o forse solo per la speranza che Luigi Marò abbia ritrovato il suo sandalo perduto. Poi accade qualcosa, che ha coinvolto Antonio e tutti noi. I corpi si fanno acefali. Restano gli sguardi fissi verso chi guarda; stavolta la materia non aggiunge ma sottrae. I volti sono scuri e fissi e viene meno la componente sociale e relazionale. La disposizione a griglia non intende costruire un racconto ma amplifica la solitudine dei singoli e la composizione “1652, PESTE, SANLURI – 2020, PANDEMIA, SANLURI” è la perfetta sintesi di un sistema di relazioni fisiche alterate dalla contingenza sanitaria. Le persone diventano volti digitali, sgranati dal controluce, illuminati da uno schermo e impaginati secondo la logica della nuova realtà virtuale che chiamano social. Basterebbe aggiungere una “e” per tornare a Bebo, a Luigi, Antonio, Ignazio; i dodici apostoli dell’universo Porru. Uomini con mani, piedi e un ruolo nel mondo a valle di Su Cuccuru.
Antonio Porru. Biografia – Antonio Porru nasce a Sanluri (Cagliari) nel 1950. Sin da piccolo la sua passione è il disegno. Nel 1966 frequenta la scuola d’arte di Oristano. Nel 1969 si diploma, rifiuta varie proposte di lavoro e la possibilità di intraprendere la carriera di insegnante: la sua passione per la pittura e per l’arte non gli consente di cedere a compromessi. Nel 1973 frequenta un laboratorio sulla terracotta organizzato da un frate francescano, Padre Ambrogio Fozzi, nel convento di Santa Lucia di San Gavino. L’esperienza sarà di grande importanza per la sua formazione; la terra lo appassiona e non lascerà più questa materia che utilizzerà in vari modi sperimentando la sua potenza espressiva. Nel 1981 dà vita con scritti e illustrazioni a un giornalino dal titolo “Sellori”, nome antico del paese di Sanluri, in cui affronta tematiche politico-sociali. Nei primi anni Ottanta costruisce di sana pianta la sua casa in località Cuccuru S.Rita, non lontano dal suo paese e si trasferisce con la sua compagna Rita. Seguirà un periodo di intenso lavoro, specialmente con i bassorilievi, ma anche con le sculture a tutto tondo, sempre in terracotta. Alla fine degli anni Ottanta frequenta il suo vecchio professore di disegno della scuola d’arte, il pittore Antonio Amore (amico di Balla e di Guttuso). I due diventano amici e condividono per un decennio lo studio laboratorio di Sanluri. Negli anni successivi realizza diverse opere per il suo paese, pannelli in terracotta, bassorilievi, stele in pietra e graffiti. La prima mostra di rilievo avviene nel 2002 all’Exmà di Cagliari. Nel 2010 vince a Oristano il 1° premio “Città della ceramica”. Viene chiamato a partecipare alla mostra dislocata nella città di Sassari, per la prestigiosa Biennale di Venezia, curata da Sgarbi. Nel 2014 la Facoltà di Teologia di Cagliari gli commissiona un lavoro importante: una terracotta da sistemare nell’aula magna. Con questo grande pannello si chiude forse definitivamente il periodo dei bassorilievi. Nel 2015 il preside del Liceo Dettori di Cagliari gli commissiona un grande graffito per il 150° della sua fondazione. Negli ultimi anni la sua attività si concentra nella realizzazione di ritratti di grandi dimensioni di persone che fanno parte della sua quotidianità. Sue opere sono presenti nella collezione della Fondazione Banco di Sardegna e in molte collezioni private.