Bova è uno dei borghi italiani che più rimane impresso nella memoria. Sospesa tra mare e cielo, questa cittadina dall’anima greca si adagia ai fianchi di uno sperone roccioso, alto circa mille metri. Spettacolare il panorama che si apre davanti agli occhi di chi vi giunga. Ovunque ripidi pendii precipitano verso il mare, tra forre, strette valli, bianchi letti di fiumare. Spazi immensi, intensi profumi e silenzi assordanti regalano una sensazione di libertà costante. Il paesaggio tutt’attorno è un insieme di spettacolarità mista a quiete e a catastrofe: le acque del mar Jonio, le propaggini più meridionali dell’Appennino, la mole imponente dell’Etna che si eleva pulsante dalla costa siciliana. Chi visita Bova rimane stregato dalla sua storia e dall’ospitalità della sua gente. Ma è soprattutto la sua natura inviolabile, la solennità sacra dei luoghi a fare del borgo una meta esclusiva.
A Bova tutto è avvolto nel mistero, compreso il nome del paese, in greco detto ΒούςVuà. Secondo alcuni significherebbe “fossa granaia”, in riferimento all’antica pratica di conservare il frumento in contenitori ipogei. Altri studiosi sostengono invece che il termine deriverebbe dal nome di un serpente, particolarmente ghiotto di latte di mucca e oggi richiamato alla mente dai batacchi che decorano i portoni delle case. Tradizionalmente il vocabolo greco-calabro Vùa trova la sua traduzione in bue, animale simbolo della cittadina, come conferma lo stemma civico a cui il cristianesimo aggiunse più tardi l’immagine della Vergine.
Ancora oggi la gente del luogo chiama Bova la Chora, il “paese”, attribuendogli il ruolo di centro urbano per antonomasia, rappresentativo del territorio circostante. In effetti il borgo, da sempre punto di riferimento religioso e amministrativo, è oggi considerato la capitale culturale dell’enclave linguistica grecanica, le cui origini si legano alla colonizzazione magno-greca dell’Italia Meridionale. A Bova questo glorioso passato si percepisce non solo nella lingua ma anche in uno straordinario bagaglio di tradizioni popolari, gestualità arcaiche, cibi, riti spirituali, come quelli dedicati al patrono del borgo, San Leo, monaco italo-greco vissuto tra questi monti nel tardo medioevo.
Per meglio comprende questa ancestrale cultura, paradossalmente nota più tra il pubblico turistico internazionale, torna utile una visita al Museo della Lingua Greco-Calabra “GerhardRohlfs”, alle porte del borgo. Rohlfs (1892-1986) fu il primo linguista a dimostrare l’origine magno-greca del grecanico, generando nel corso degli anni Venti del secolo scorso una accesa querelle con quanti, di contro, sostenevano che l’idioma non fosse così antico, in quanto nato durante il lungo medioevo bizantino. Il museo consente di approfondire aspetti peculiari della lingua ellenofona, già nell’Ottocento confinata in una delle aree più impervie della regione, tra piccole comunità agropastorali che, nei secoli, hanno cristallizzato usi e costumi d’impronta greca e bizantina. Questa antica lingua, attualmente parlata anche nei vicini comuni del Basso Jonio reggino, conserva dorismi risalenti all’VIII secolo a. C., parole andate perdute persino nel greco moderno. Il Museo è una finestra attraverso cui osservare l’Aspromonte greco, in particolare Bova, oggi fruibile anche attraverso delle sezioni museali urbane, quali la Giudecca e il parco letterario, “O Cipo ton Logo”, istituite con l’obiettivo di far percepire l’aurea di misticismo che pervade questo luogo.
A Bova, infatti, tutto ciò che è sacro si mescola al profano, così come la meditazione si amalgama alle preghiere di qualsiasi confessione. Le origini di questa vocazione ecumenica sembrano intravedersi nei miti di fondazione del sito, leggende nelle quali è evidente il susseguirsi di genti e religioni diverse. Un suggestivo racconto, narrato dagli storici locali, ricorda l’arrivo a Bova di popolazioni giudaiche, discendenti di un pronipote di Noè: Aschenez. La leggenda trova supporto storico nei molteplici insediamenti ebraici diffusi in Calabria e documentati anche a Bova, dove tra il XV e il XVI secolo era presente una giudecca, oggi riqualificata con un’originale installazione d’arte contemporanea e un efficiente percorso museale.
Un altro racconto leggendario rimarca invece le origini cristiane di Bova, attribuendo l’istituzione della diocesi al diacono Suera, un seguace di San Paolo, quest’ultimo sbarcato a Reggio nel 61 d. C. durante il suo viaggio a Roma. Di vero è che la sede diocesana, istituita forse già nell’XI secolo, fu una delle più longeve eparchie in Italia, dal momento che mantenne il rito greco fino alla seconda metà del Cinquecento.
Tra tutti i miti di fondazione del borgo, quello certamente più caro ai bovesi vede protagonista una regina greca giunta in Calabria dall’isola di Delo. La sua figura si lega all’impronta del suo piede lasciata impressa sulla cima del costone roccioso sovrastante il borgo. Stando al racconto, solo il piede che calzerà la misteriosa orma avrà il privilegio di scoprire un tesoro, celato tra i ruderi del castello. L’impronta regale rimanda ai racconti mitologici di sandali perduti, come quello indossato da Kore (Persefone), la figlia di Demetra, rapita da Ade, dio dei morti. Testimonianze di questo culto sopravvivono nella devozione mariana e nei riti praticati a Bova in concomitanza alle feste pasquali, quando nel borgo vengono realizzate sculture vegetali, portate in processione la Domenica delle Palme. Una settimana prima della ricorrenza che celebra l’ingresso di Gesù a Gerusalemme, la comunità si riunisce per realizzare manichini di steli di canna, avvolti da un ricamo di foglie di ulivo e modellate a formare sagome femminili, addobbate infine con fiori e primizie. Il rito è carico di rimandi archetipi, soprattutto quando al termine della liturgia queste dame vengono smembrate dai fedeli, che fanno incetta di rametti da conservare per la benedizione delle case e dei campi. Chiunque abbia avuto modo di partecipare alla processione di Bova rimane incantato della rievocazione mitica del passato: incarnazione della gioia di Kore, nel riportare la primavera durante i mesi che passava sulla terra in compagnia della madre.
Testo di Pasquale Faenza – storico dell’arte
Fotografie di Enzo Galluccio