Il Ciad è un’ex colonia francese e se non fosse per l’omonimo lago probabilmente pochi ne ricorderebbero l’esistenza. Nemmeno i francesi dell’epoca, che lo avevano conquistato, e non tenevano probabilmente un granché a questo pezzo d’Africa. Continentale e in buona parte desertico, lontanissimo dai porti sull’Atlantico e sul Mediterraneo, non era un territorio economicamente interessante per la madrepatria. Certo, un tempo era stato al centro di importanti rotte carovaniere verso nord e culla dei ricchi imperi che ne regolavano traffici e commerci ma poi, cambiate le rotte, caduti gli imperi,si è trasformato in una periferia dei territori del grande Sudan francese.
E poi? Finito il periodo coloniale? Quello del Ciad è stato un destino comune a quello di molti paesi della fascia del Sahel. Un destino di conflitti politici e militari di cui è facile trovare le premesse. A nord popolazioni nomadi o seminomadi di cultura islamica che nei secoli con le loro carovane hanno trasportato, tra le varie merci, anche schiavi catturati al sud. Un sud fatto di popolazioni stanziali che, giocoforza, sono venute in maggior contatto con gli europei al tempo della colonizzazione. Subendone le angherie ma anche studiando nelle loro scuole e gettando così le basi di una futura classe dirigente.
Popolazioni perlopiù animiste che hanno spesso accolto più facilmente il cristianesimo. Nel ‘60 l’indipendenza dalla Francia e l’elezione del primo presidente, Tombalbaye, che dà subito il peggio di sé mettendo al bando tutte le altre forze politiche. Scoppiano presto i primi conflitti interni con il nord a cui presto si aggiungono gli interessi di Gheddafi che appoggia i ribelli delle regioni settentrionali contro il governo centrale. Il colonnello libico è mosso sia da interessi politici che da mire espansionistiche. Com’è andata ce lo racconta ancora il deserto. Disseminato di “souvenir” di guerra. Qui si sono svolti i terribili combattimenti che hanno portato, dopo anni e anni di conflitto, alla sconfitta dei libici e alla riconquista dei territori da parte del Ciad. Ora il paese si gode la pace ed è ormai uno dei pochi stati sahariani dove ci si può muovere liberamente e in sicurezza.
Per andare in Ciad la via più comoda, come per buona parte dei paesi francofoni, resta volare su Parigi e poi da Parigi su ‘Ndjamena, la capitale, e poi da ‘Ndjamena… basta. Niente voli interni. Niente compagnie di bandiera. Per muoversi bisogna prendere la macchina e il deserto, quello bello, quello dove sono diretto, l’Ennedi, si trova a tre giorni di distanza. Tre giorni di piste polverose che corrono sul letto di quello che, millenni fa, fu un gigantesco lago e che oggi si presenta come un’interminabile piana percorsa da onde di sabbia che increspano l’orizzonte. Poi, finalmente, su quell’orizzonte sterminato cominciano a comparire i profili dei primi roccioni, come lo skyline di una cittadella fortificata. Sono i primi baluardi del massiccio dell’Ennedi. Le sue rocce sono consumate, a tratti imponenti a tratti fragili, portano incisa la poesia del tempo scritta da acqua, vento, gelo e sole infuocato. D’altronde è arenaria, sabbia solida. Risultato della sedimentazione di altre erosioni, di altre montagne scomparse in epoche talmente lontane da essere difficili da immaginare. Le rocce erose creano archi e pinnacoli, guglie e mammelloni.
Fragili sculture che a volte sembrano poter cedere da un momento all’altro; eppure, per noi, sono lì da sempre visto che portano tatuata sulla loro pelle ruvida la nostra storia. Intatta dopo millenni. Già, perché su quelle rocce i nostri antenati hanno raccontato la loro vita con pitture e graffiti. Un fumetto, un carnet ante litteram che ci racconta le gesta di eroi lontani, di caccia e battaglie, di migrazioni di animali e di quotidianità di villaggio.
Le valli e le gole sono disseminate di queste testimonianze di quando il deserto era ancora verde. Ma il deserto è ancora vivo. Nelle gole di Archeï resiste l’acqua e qui si danno appuntamento centinaia di dromedari per abbeverarsi prima di tornare ai magri pascoli. È una scena unica. Arrivando in questi luoghi lo spettacolo viene preannunciato dall’eco dei cammelli che urlano la loro sete e si salutano, festosi. C’è acqua. C’è vita. E in quelle piccole pozze d’acqua la vita resiste sotto forma di piccoli pesci e di grandi coccodrilli rimasti intrappolati qui quando, tutto intorno, per centinaia di chilometri l’acqua è sparita. Ma il deserto non smette mai di stupire. Un nulla pieno di sorprese.
Lasciate le alture dell’Ennedi ecco i laghi Ounianga, costantemente spettinati dal vento che s’infila tra le falesie d’arenaria allungando, tra acque e canneti, lunghe dita di sabbia. Alcuni hanno acqua dolce, altri, i più grandi, salatissima. Le acque dense di sale e sbattute dal vento creano grandi cumuli di schiuma sulle rive mentre sui fondali più bassi la colorazione del lago vira dal verde al rosso cupo. Che magia!
Per tornare alla “civiltà”, di nuovo tre giorni di macchina in cui incontriamo camion vecchissimi, malconci e stracarichi di persone e cose affrontare le dune, verso il confine di turno. Merito di motori generosi, necessità e di tante braccia pronte a spingere. Il Mediterraneo inizia qui, tra queste onde di sabbia, in questi porti aridi, e nessuno di noi sa che anche qui, molto prima di arrivare al mare, si naufraga nell’oblio. Ma nessuno si domanda mai perché gente che non ha di che vivere spenda 5.000 euro per rischiare la vita invece di prendere comodamente un volo per un decimo della cifra. Basta una parola per spiegare tutto: visto. Negato, sempre.
di Barnaba Salvador – carnettista e acquarellista