In questo articolo mi occuperò di un dipinto seicentesco molto famoso, il cosiddetto Suonatore di liuto, un olio su tela di 110×81 cm conservato nelle Gallerie di Monaco di Baviera, ancora oggi avvolto nel mistero più fitto. Incrociando alcuni dati interessanti provenienti da diverse fonti del passato o anche da recenti pubblicazioni, cercherò di proporre finalmente un autore a cui restituire questo incantevole dipinto che tuttora promana un certo fascino misto ad un alone di mistero riguardante segnatamente l’attribuzione lungamente dibattuta. Cosa rappresenta questo dipinto? E soprattutto cosa ci vuole comunicare? Il dipinto di Monaco di Baviera mostra una spiccata attitudine caravaggesca tanto nel forte chiaroscuro qui sapientemente dosato quanto nell’incidenza della luce che, provenendo da una fonte esterna in alto a sinistra, fa emergere la solida figura del musicista dal fondo completamente scuro. Il giovane suonatore, qui ritratto a mezza figura e ruotato leggermente di tre quarti, porta in testa un copricapo bianco bordato di rosso, a mo’ di cuffia, e indossa un giubbetto di color rosso amaranto impreziosito da alamari dorati; lo strumento musicale disposto diagonalmente e sorretto con piglio molto deciso dal ragazzo dallo sguardo trasognato, sporge in primo piano, proteso com’è verso l’osservatore così da abbattere definitivamente la barriera tra spazio dipinto e spazio reale. Il fascino misterioso che emana questo giovane suonatore deriva in primis dai numerosi dettagli presenti nel dipinto che non passano certo inosservati e lasciano a bocca aperta, quali i riccioli scomposti che incorniciano il perfetto ovale del volto, il turgore del rosso delle labbra, lo sguardo magicamente catturato in presa diretta e persino un certo strabismo di Venere, ma evoca altresì certe figure dipinte da Cecco del Caravaggio o i giovani garzoni d’osteria presi dalla strada che lo stesso Michelangelo Merisi ha immortalato durante la sua permanenza a Roma.
Nel ripercorrere la difficile storia critica dell’opera qui esaminata, non possiamo esimerci dal constatare quanto complicato e tortuoso fosse stato il lungo tragitto che ha caratterizzato la ricostruzione filologica del dipinto in questione, un tempo attribuito al Caravaggio da Roberto Longhi fin dagli anni Venti del Novecento. Ma procediamo con ordine partendo dall’attribuzione di Roberto Longhi che presentò il Suonatore di liuto come autografo di Caravaggio in occasione del Congresso di Storia dell’Arte tenutosi a Londra nel 1939 e lo espose finanche alla mostra milanese del 1951: in alcuni articoli apparsi su «Proporzioni» nel 1943 e nel 1952 da cui presero le distanze in merito all’attribuzione sia il Venturi che l’Argan, il Longhi considerava il dipinto come “il più antico paradigma di colore-luce del Caravaggio”, restituendolo infine alla fase romana in cui il grande pittore lombardo realizzava la prima versione del San Matteo con l’angelo e la Santa Caterina Thyssen (fine ‘500 e inizi del secolo successivo). In tempi più recenti (1992) Ferdinando Bologna ha riunito tre opere, tutte raffiguranti personaggi ritratti a mezza figura a proposito delle quali lo storico dell’arte ha sottolineato delle analogie molto stringenti tra di esse: il bellissimo Suonatore di Liuto di Monaco, un Filosofo o Astronomo conservato a Pasadena e un’altra versione del Suonatore di liuto conservata a Dresda (con la figura del musicista questa volta più matura e con la barba, la quale è vista in controparte rispetto all’esemplare di Monaco).
Il gruppo di opere studiato dal Bologna e accettato da Gianni Papi nel 2001 ha come comune denominatore una stessa provenienza fiamminga avvalorata anche da una tesi dello storico Leonard Slatkes, il quale propose nel 1998 il nome di Adam De Coster (1586-1643), artista fiammingo tuttora poco studiato e di cui si hanno scarse notizie relative sia alla sua vita che al catalogo delle sue opere. Lo scrivente sostiene fortemente la tesi proposta dallo Slatkes in quanto le tre opere, raggruppate dal Bologna nel 1992 e datate probabilmente al primo decennio del Seicento, mostrano delle affinità molto stringenti sia dal punto di vista compositivo che dal punto di vista del trattamento luministico che fa emergere dall’oscurità queste figure elegantemente vestite e illuminate da una particolare luce di matrice fiamminga (il giubbotto del Suonatore di liuto di Monaco ha la stessa valenza compositiva e cromatica del capo d’abbigliamento indossato dall’Astronomo di Pasadena): se notiamo alcuni particolari di queste tre figure messe a confronto emergono alcuni dettagli inequivocabili quali la stessa morfologia del naso, della bocca e in modo particolare lo stesso modo di dipingere le mani che appaiono tozze e particolarmente nodose; un confronto schiacciante appare l’analisi del dipinto di Adam de Coster raffigurante un Cantore con candela della National Gallery of Ireland in cui si notano dettagli morfologici ed anatomici molto simili alle tre opere studiate dal Bologna.
Un altro quadro del Coster la Fanciulla in turbante con candela, passata da Sotheby’s a New York nel 1992, mostra un altro dettaglio inequivocabile che ci può ulteriormente aprire gli occhi circa l’attribuzione del Suonatore di liuto di Monaco: lo stesso disegno del turbante bianco bordato di rosso annodato nella medesima maniera di quello del Suonatore di liuto è un’ulteriore prova della paternità del dipinto bavarese da restituire senza ombra di dubbio ad Adam De Coster, ma credo che in entrambi i dipinti le affinità e le analogie stilistiche si sprechino inevitabilmente quali ad esempio lo stesso disegno delle labbra dal colore rosso vivo così fortemente intenso. Adam De Coster, soprannominato Pictor Noctium visse quasi sempre ad Anversa, città nella quale divenne un pittore affermato; il suo stile così fortemente caravaggesco presuppone un viaggio di formazione in Italia che non è stato ancora ricostruito con esattezza.
Le sue opere mostrano affinità con lo stile di Carlo Saraceni, Cecco del Caravaggio e perfino con il Finson. L’appellativo di Pictor Noctium ci fa venire in mente l’altro grande pittore nordico attivo in Italia nel secondo decennio del Seicento Gherardo delle Notti. Entrambi condividono il gusto per gli interni rischiarati dalle candele o dalle torce: la cosiddetta pittura a lume di candela di matrice luministica fiamminga e olandese ma fortemente influenzata dall’opera di Caravaggio. Intorno al 1620 Giulio Mancini scriveva che a Roma tra il primo ed il secondo decennio del Seicento transitavano numerosi pittori fiamminghi e francesi “che vanno e vengono non li si può dar regola”. A Roma i pittori stranieri frequentavano le accademie del vivo, ovvero gli ateliers di Gentileschi, Saraceni e Manfredi. In conclusione, il dipinto di Monaco, avvolto nel mistero più fitto da quasi un secolo, non può essere altro che di Adam de Coster, pittore interessante e raffinato ma da riscoprire una volta per tutte attraverso la progressione degli studi e l’analisi del suo corpus di dipinti ancora da catalogare.
di Francesco Caracciolo – storico dell’arte