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Editoriale 15/MMXXIV

Ci sono storie, nella più ampia storia delle civiltà umane, che incredibilmente il tempo cancella o dimentica. Quella dei Nabatei può essere annoverata fra queste. Un popolo leggendario, di origine araba, che anticamente ebbe prestigio e raggiunse una grande importanza a motivo del primato sul commercio carovaniero che prosperava lungo le rotte che congiungevano l’Arabia meridionale all’Egitto e ai porti della Siria. Rotte che hanno lasciato tracce anche nella fascinosa onomastica con cui successivamente sono state identificate: la via dell’incenso. I Nabatei, da tribù nomadi, si trasformarono gradualmente in un popolo sedentario e quindi in un Regno, di pari passo con l’incremento della propria ricchezza e dell’organizzazione sociale. Ne abbiamo testimonianza grazie agli scrittori classici, alle monete e alle iscrizioni ritrovate, ai loro monumenti sepolcrali scavati nella roccia viva. Resti di una civiltà che ebbe un ruolo nella storia.

Poi, a partire dal III secolo d.C., iniziò la loro decadenza causata soprattutto dall’aprirsi di nuove rotte commerciali da parte dei Romani. E dei Nabatei sembrano essersi perse le tracce, fino a condurli ad un oblìo durato molti secoli. La riscoperta si ebbe nel 1812 quando Burckhardt rivelò al mondo occidentale la città di Petra, nascosta nei suoi anfratti. Un altro magnifico sito, ubicato nell’attuale Arabia Saudita, ha recentemente riacceso i riflettori sulla via dell’incenso: si tratta di Al-Ula, divenuta legittimamente una nuova frontiera del turismo archeologico, come a rivendicare attenzioni su una storia che comunque è sempre stata lì, anche se dimenticata o nascosta dal tempo e dal deserto. Una storia foriera di un ulteriore monito che possiamo adattare alle nostre vite, e che possiamo rappresentare prendendo in prestito le parole di Isaac Newton: “Se ho fatto qualche scoperta di valore, è dovuta più alla paziente attenzione che ad ogni altro talento”.

di Fabio Lagonia

 

 

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