In tournée, nei maggiori teatri italiani, un nuovo allestimento dell’Enrico IV di Luigi Pirandello, con Sebastiano Lo Monaco, regia di Yannis Kokkos. Questi lega l’ironia pirandelliana alla sua personale visione del mondo contemporaneo, assunto nella sua totalità dentro il teatro, in un singolare impasto tra metateatro e vago epigonismo medievale in cui la scena si apre ad un vertiginoso processo di doppi, di incastri e di mise en abîme con la spettacolarizzazione della follia amplificata dall’entrata in scena di uno schermo televisivo che rimanda ai talk-show e alla tv del dolore che tanto spazio ha in una società dal voyerismo permanente.
Il décor, ideato dallo stesso regista, è simmetricamente diviso tra realtà e finzione. La quinta di destra è occupata da camerini in cui gli attori indossano a vista i costumi delle loro identità fittizie portando a continua incandescenza i personaggi in un’operazione di ironia debordante; nella quinta di sinistra, perimetrata da un pavimento geometrico in bianco e nero, si erge una sorta di armadio-sacrestia in legno con dipinti i volti di Enrico IV/Lo Monaco e Matilde di Canossa, una sorta di boîte à surprise di sapore artigianale che racchiude una colonia di piccoli segreti, di verità riposte e desideri che consente l’accesso solo ai “personaggi” della Storia. Al centro un grande trono dorato si contrappone a un divano nero capitonné. Sospeso nello spazio, un orologio digitale detta il ritmo dell’azione drammaturgica introducendo l’idea del tempo reale dentro il tempo storico mentre una luna piena elettrica spande una luce livida che sembra, per pochi inafferrabili istanti, bloccare i movimenti scenici quasi raggelandoli.
Già andato in scena al Teatro Grandinetti di Lamezia Terme (CZ) per la stagione teatrale 2021-2022 organizzata da AMA Calabria con la direzione artistica di Francescantonio Pollice, questo (ennesimo) Enrico IV di Lo Monaco non è di reboante follia ma pare conservare, a tratti, il candore illuminato di un Don Chischiotte e le note dolenti e nostalgiche di un Cyrano. La sua è una (finta) pazzia ben amministrata in cui alle calme e sagge certezze si alternano attimi di stupore e meraviglia spalancati su una vita che non si comprende. La vita come caricatura, dunque, mentre i ricordi si susseguono in una serie di lacerti di memoria impalpabili e lontani che giungono a rovesciare prospettive, ribaltare rapporti. Soprassalti di verità sopra il gran magma della menzogna. Una sorta di moderna schizofrenia che sembra rivelare il dissidio interiore dell’uomo contemporaneo laddove il travestimento diventa rifiuto del reale.
Il piacere del teatro si riconosce, qui, in quell’abile tenuta di parola finta e parola vera, fra il linguaggio parlato e quello taciuto che Enrico IV/Lo Monaco propone senza compiacimento ma con una dolorosa determinazione che ha per contrappunto una sapida ironia. Si presenta in scena ascetico e indifeso, avvolto in un umile saio. Con gesti calibrati che, tuttavia, tradiscono un sottile godimento, si accinge a giocare la sua ultima carta, quella vincente, per perdersi definitivamente. Uomo con dentro il sogno di una vita impossibile, prigioniero di un volontario isolamento, individuo inesorabilmente sconfitto per il quale la follia diventa destino.
Tutti gli attori, in una recitazione corale affiatatissima, esprimono di ogni personaggio affidato alle loro cure una attenta configurazione. Mariàngeles Torres, nella sua naturale eleganza, sa infondere dignità alla Marchesa Matilde di Spina, ingenua e trepida peccatrice. Claudio Mazzanega è un Belcredi filisteo, un po’ perfido e un po’ tiranno, distaccato e avvolto in un lividore quasi glaciale fatto di piccole smorfie e movimenti legnosi da figurina di cartone. Rosario Petix,nel ruolo del dottore Dioniso Genoni, ha l’allure del grande luminare avvezzo ai salotti televisividi cui accentua, con limpidezza di linguaggio e misurata ironia, gli elementi grotteschi ed esibizionistici. Giulia Tomaselli è una giovane Frida che si muove timida e ritrosa lungo la linea della farsa allestita dalla madre e dal fidanzato fino ad acquistare spessore e dignità di personaggio. Francesco Iaia fa del Marchesino Carlo di Lolli una figura sollecita e protettiva, senza particolari asprezze o rabbia. Densa e ben strutturata la presenza scenica dei quattro finti consiglieri Sergio Mancinelli (Bertoldo), Luca Iacono (Landolfo), Gaetano Tizzano (Ordulfo), Tommaso Garrè (Arialdo) che hanno un touch da fool shakesperiano mentre Marcello Montalto, nei panni del vecchio cameriere Giovanni sembra incarnare una fedeltà quasi canina.
I pittorici costumi di Paola Mariani con pattern geometrici e cromatismi accesi e brillanti, infrangono il buio. Le belle musiche di Vanni Cassori si insinuano negli spazi della scena con proprietà espressiva. Le sapienti luci di Jacopo Pantani, varianti in localizzazioni, colori e intensità, ottengono l’effetto di sub-codice linguistico. Il disegno registico di Kokkos opera sulla parola scenica per sottrazione. Espungendo le parti che appesantiscono il testo, porta l’ellittico linguaggio pirandelliano alla sua essenzialità, riduce al minimo gli orpelli e concentra i mezzi scenici sull’assolutezza delle passioni che conducono allo scacco della ragione attraverso parole “dette” con il massimo della loro espressività semantica sì che i personaggi vengano come precipitati verso il loro drammatico destino quasi senza prendere respiro. Ne risulta una messa in scena giocata su una intonazione più moderna, contemporanea, in chiave di mal de vivre e di disagio intorno alle relazioni interpersonali improntate all’ipocrisia.Un dramma che investe tutti e che tutti contemplano quasi fossero diventati spettatori di sé stessi. Il finale blocca i personaggi in una posa inanimata, stretti intorno ad Enrico IV come intorno al suo letto di morte.
Testo di Giovanna Villella
Foto di scena di Federico Losito