Enrica Berselli, Alice Padovani e Federica Poletti, artiste modenesi di riferimento nel panorama artistico contemporaneo, sono protagoniste della mostra “Figlie del fuoco”, a cura di Barbara Codogno, in programma fino al 18 settembre 2022 nel Complesso di San Paolo a Modena, recentemente restaurato e restituito alla città per eventi a carattere culturale.
Promossa dall’Associazione Amigdala con il sostegno del Comune di Modena, l’esposizione ha un titolo riferito all’opera che sigilla la breve esistenza terrena dello scrittore romantico Gérard de Nerval, il primo ad eleggere il sogno a ponte tra la realtà e il soprannaturale (übernatürlich). «Il fil noir del progetto – scrive Barbara Codogno – è una narrazione che si innesca dal sogno e agisce nell’inconscio; vive nella densità grumosa dello spazio psichico, agisce negli agglomerati del sottotraccia, si insinua nel sottopelle, abita il sottosuolo. Senza accendere nessuna fiamma metafisica sulla tragicità del transeunte. Una mostra labirintica che racconta di corpi ribelli, vivi anche se sepolti, velati ma anche rivelati, che patiscono menomazioni salvifiche. Corpi che cortocircuitano loro stessi innescando tanto patologiche quanto medicamentose vie di fuga. Corpi che rifuggono selvaggi dai canoni stereotipati per dire unicamente la difficoltà, l’attrito tra essere e vivere, tra il guardarsi e l’immaginarsi. Una mostra che indaga i territori della bellezza disinnescando le convenzionali strutture estetiche, sovvertendone impietosamente tutti i criteri. Piuttosto, andando ad abbeverarsi di verità proprio alla fonte primigenia dell’inganno: il corpo».
Il percorso espositivo, sviluppato negli spazi dell’Ex Chiesa e della Sala delle Monache, in cui sono stati riportati alla luce dipinti e decori del Seicento, comprende una teoria di sculture in cera di Enrica Berselli, che ricostruiscono il corpo a partire dalle sue reliquie, tre grandi opere a tecnica mista su carta di Alice Padovani, i cui fondali scuri sono solcati da segni brulicanti, infine i dipinti di Federica Poletti in cui il non detto affiora nonostante il suo mascheramento. Il titolo di uno degli oli in mostra – “Attrito” – è stato donato a Poletti da Massimo Recalcati, in omaggio allo iato dell’essere, alla frizione dell’esistere.
Merita una descrizione separata l’opera “Figlie del Fuoco” realizzata congiuntamente dalle tre autrici. L’installazione, collocata a terra, si ispira idealmente alle silhouette femminili di Ana Mendieta (L’Avana, 1948 – New York, 1985). Le tre artiste ricostruiscono la loro sagoma in tre posizioni differenti, usando del carbone per tracciarne il profilo. Berselli, attentissima alla dimensione plastica e alla perfezione stilistica si ritrae in posa vitruviana, con braccia e gambe allargate. Padovani, sempre estremamente coerente col suo percorso di ricerca e ferma nell’uso del proprio linguaggio estetico, sarà invece coricata su un fianco in posizione larvale. Mentre Poletti proporrà la sua sagoma nella posizione yogica dello Savasana, anche detta “del cadavere”, una forma meditativa per ritrovare respiro ed equilibrio interiore. Il titolo dell’esposizione trova quindi la sua esatta aderenza in questa installazione, sigillata da quest’opera corale. E se il carbone combusto è testimonianza del fuoco che ha bruciato, al posto delle braci residuali, ogni artista va a sistemare una propria opera, posta all’interno della silhouette. Berselli propone “Specimens”: cinque piccolissimi disegni aventi come tema comune l’uovo e realizzati con inchiostri e materiali corrotti su carta. Padovani inserisce una scultura in bronzo dal titolo “Uno” e tratta della serie “Bronze Cocoons”: un bozzolo spiraliforme con striature dorate dal quale un animale si è appena evoluto. Mentre Poletti nella propria silhouette colloca una scultura perturbante, realizzata in ceramica bianca, che ricorda l’osso pelvico di un primate. Mendieta nei suoi lavori esplorava temi come la vita, la morte, la violenza, l’amore, il sesso e la rinascita. L’artista scriveva: “Le immagini devono avere potere, essere magiche”. E l’omaggio che le tre artiste modenesi rendono a Mendieta è allora nel solco di questa profezia.
In occasione del festival filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo (16-18 settembre 2022), la cui 22ª edizione sarà dedicata al tema della Giustizia, all’interno della mostra “Figlie del fuoco” si terrà l’evento “La legge dei corpi” in cui le artiste esporranno opere inedite legate alle tematiche del Festival.
Di seguito un testo critico di Barbara Codogno
Ingannevole è il corpo, più di ogni altra cosa. Immediato l’accostamento del titolo, “Figlie del fuoco”, al Genius Occursus di questa esposizione modenese che vede protagoniste Enrica Berselli, Alice Padovani e Federica Poletti: voci originalissime, personalità tra le più complesse e ardenti del linguaggio artistico contemporaneo. Ma scomodare il grande e, per molti versi, ancora incompreso Gerard de Nerval per una semplice assonanza, seppur infuocata, non renderebbe giustizia alle nostre dardeggianti autrici. Va detto allora che “Le figlie del fuoco” è l’opera che sigilla la breve esistenza terrena dello scrittore romantico (1808 – 1855), la quale termina, per sua volontà, con l’impiccagione. Una vita tormentata, resa ancor più tragica dai disordini mentali di cui soffriva. La produzione letteraria di Gerard de Nerval si sviluppò all’interno del sentire romantico, muovendo però i suoi lampi verso il simbolismo e, a tratti, anticipando il decadentismo. Egli fu il primo a intuire – e per questo i surrealisti gli furono debitori- che il sogno era un ponte di comunicazione tra la realtà e l’ampio raggio dell’übernatürlich: teoria entro la quale trovano amalgama di collocazione: esoterismo, magia, massoneria e tutte quelle pratiche alchemiche che deviano dalla codificazione scientifica dell’esperienza. Erano anni, quelli, in cui la Francia guardava ammirata all’Oriente. Nel 1836 Parigi incastrava infatti l’obelisco di Luxor tra le sue architetture: il monolito in granito rosso, con impresse le eroiche vicende del faraone Ramses II, venne collocato in place de la Concorde. Furono davvero molti gli intellettuali, scrittori e artisti che, ipnotizzati da quei geroglifici, partirono alla volta dell’Egitto: tra questi anche Gerard de Nerval, come testimonia il suo “Voyage” del 1843, testo imprescindibile per decifrare “Le figlie del fuoco”. Quasi seguendo la prospettiva estetica baudelairiana (Baudelaire, 1821 – 1867, gli è infatti pressocché coevo), Gerard de Nerval usa il “tessuto” orientale come metafora per la comprensione dell’Oriente stesso. L’oriente è “velo” oltre il quale raggiungere la verità, del testo e dell’uomo. Ordito esoterico, drappo che vela e rivela ciò che non è più. Il “tessuto” –habitus– così come la trama altro non sarebbero che una muta: una seconda pelle. Una “fodera” dell’io più segreto, ma anche un’apertura sul non detto. Risultano piuttosto evidenti le corrispondenze con Schopenhauer (1788 – 1860) e il suo “Velo di Maya”. Il filosofo polacco asseriva che squarciando il “velo”, inteso come illusione, oltrepassando cioè quel tessuto che ci fa vedere unicamente il mondo fenomenico, la realtà puramente esteriore delle cose, possiamo raggiungere non solo la nostra coscienza ma, soprattutto, la verità del corpo. Eccoci dunque giunti senza alcun slittamento di senso -anzi, in virtù di un’ampia estensione poetica e lessicale- al cospetto dell’esposizione modenese dove trionfa –côté funèbre– una fitta trama oscura, ordita con intensità lirica e strabiliante forza stilistica. Scrive ancora Gerard de Nerval: “Noi possiamo accedere soltanto dietro le quinte della vita, laddove il circolo dei secoli continua a ricominciare”. Le opere delle tre artiste modenesi agganciano l’eterno liturgico ritorno, l’alternarsi di vita e morte, approcciando il tema con originali tratti sintattici e stilistici. Il “Fil noir ” è una narrazione che si innesca dal sogno e agisce nell’inconscio; vive nella densità grumosa dello spazio psichico, agisce negli agglomerati del sottotraccia, si insinua nel sottopelle, abita il sottosuolo. Senza accendere nessuna fiamma metafisica sulla tragicità del transeunte. Una mostra labirintica che racconta di corpi ribelli, vivi anche se sepolti, velati ma anche rivelati, che patiscono menomazioni salvifiche. Corpi che cortocircuitano loro stessi innescando tanto patologiche quanto medicamentose vie di fuga. Corpi che rifuggono selvaggi dai canoni stereotipati per dire unicamente la difficoltà, l’attrito tra essere e vivere, tra il guardarsi e l’immaginarsi. Una mostra che indaga i territori della bellezza disinnescando le convenzionali strutture estetiche, sovvertendone impietosamente tutti i criteri. Piuttosto, andando ad abbeverarsi di verità proprio alla fonte primigenia dell’inganno: il corpo.
Il velo dipinto. Federica Poletti è pittrice che nel corso della sua importante produzione spesso ha usato “velare” quei volti e quei corpi, che da sempre traduce con maestria su tela, usando cupe tonalità dell’anima. Seguendo le tracce ordite da Nerval, Schopenhauer e Baudelaire, potremo infine desumere che il “tessuto”, anche inteso come “sipario”, è testimonianza di una trama narrativa che, impalcatura ancillare, ora svela e disvela, annuncia e dissimula: continuum en travesti. In questa mostra Poletti propone un trittico che segue questa direzione: il non detto che affiora nonostante il suo mascheramento. Su fondale teatrale nero, una bambina di spalle (o forse è una vecchia?) schiena larga, pastrano consunto che le sta largo, come fradicio. Che sia una ragazzina o una vecchia, l’abito che indossa testimonia comunque una inadeguatezza del corpo rispetto al suo habitus. Le trecce sono fitte e lunghe. Potrebbero essere quelle di una bambina che la mamma pettina con dovizia, per restituire un ordine alla capigliatura ribelle; o quelle di una donna anziana prima che, ella stessa, con ritualità di gesto bizantino, le risolva nel classico chignon usato dalle donne di campagna. Chiude il cerchio di fuoco l’opera, anch’essa allestita su fondale nero, dove sosta – sospesa tra la vita e la morte- una falena. Tra tutte le farfalle, Poletti sceglie quella notturna, che spinge e devia verso un altrove, un “al di là” del dipinto a cui giunge grazie a una pennellata –colpo geniale– di un bianco sporco che, come capocchia di uno spillo fantasma, inchioda l’animale alla sua resurrezione. Queste due opere ricompongono liricamente Mattutino e Lodi della liturgia che l’Ufficio delle Tenebre organizzava durante la Settimana Santa. Quella “santa” che nella poesia di Nerval… sospira, empedocleo mantice pneumatico. Nell’opera centrale del trittico di Poletti è il soffio vitale ad animare il requiem, la Missa defunctorum. Scriveva Baudelaire: l’occhio cerchiato di nero, una finestra spalancata sull’infinito. Nel dipinto di Poletti una pennellata incerta, nera e materica, apre una voragine dall’occhio femminile. Lo sguardo trapassando il corpo, squarcia il velo di Maya e si consegna come crisalide del notturno. Discorso a parte merita l’opera “Attrito”, titolo che giunge all’autrice dal filosofo Massimo Recalcati. L’attrito si genera dalla disunione. Lo iato dell’essere. La frizione dell’esistere. In questo dipinto Poletti sdoppia alcune parti del corpo della figura femminile -il braccio, il mento- che colloca su fondale cupo di ghiaccio. La dimensione acquatica e glaciale spinge la scena verso la visione mistica: come se la figura femminile, rompendo l’involucro del sé, svelasse un’identità divina.
Memorie del sottosuolo. L’opera di Padovani ha veramente qualcosa di unico: per la libertà, per la capacità rabdomantica con cui l’artista si inabissa negli ingannevoli meandri del sottotraccia. Per il brivido di paura, la vertigine di ribrezzo che si insinua al solo pensiero di avvicinare larve e insetti, sputati fuori dalla nera terra. Il primo, inconfessabile, pensiero è quello della nostra carne in decomposizione. I cadaveri sottoterra producono vita: una moltitudine di esseri larvali in grado di nutrirsi di morte. Un rivoltante eterno ritorno. Padovani però cerca tracce di vita anche dove regna l’assoluta oscurità. Nella trilogia che espone in questa occasione modenese, l’artista abbandona parzialmente l’uso degli insetti, utilizzo questo che basta a renderla già particolarmente speciale nell’universo del contemporaneo. Delle sue “bestie” rimane però evidenza. Come Poletti, anche Padovani agisce su un fondale che è campitura estrema ed estesa (usa infatti l’acrilico più nero in commercio) sulla quale “trama” segni indelebili e lucidi. L’effetto è straniante: al principio crediamo di trovarci davanti a un monolite monocromo, con il nero che ci risucchia, voluttuoso e luttuoso. Il fondo nero, steso piuttosto grossolanamente, ci attrae perché ricorda la nera terra del nostro ultimo sfiatare. In seguito, veniamo ipnotizzati dai movimenti spiraliformi che la luce rifrange sul nero. L’opera si muove, si attorciglia. Cosa trama negli orifizi? Ci sono insetti che strisciano, larve che si muovono. L’opera fa affiorare segreti tracciati: le memorie del sottosuolo. Metafora evidente dell’agire psichico sotterraneo. Ma anche unghia sudicia che graffiando la pelle ne provoca rossore e gonfiore, un ribollire infetto che germina nel sottoterra. L’io esiste solo se in costante metamorfosi, nello iato tra vita e morte, nel circolo vizioso di cui il sottosuolo è memoria. La seconda opera del trittico in un angolo riporta il disegno di crisalidi bianche che sbocciano dalla terra. Mentre la terza, che torna al nero assoluto, cede a una piccolissima impronta: è un ragno. L’insetto, caduto casualmente sulla carta, è stato dall’autrice stabilizzato e conservato. Il buio cosmico dell’universo registra l’orbitare di una stella cometa.
Il Mal d’Aurora. Con quell’audace fedeltà all’idiosincrasia, l’ipersensibilità che contrassegna tutta la sua opera, per la sua agilità di movimento osmotico tra fisiologia, psicologia e metafisica, Berselli conduce la sua impresa speculativa con singolarità irriducibile. A partire da un piccolo olio in bianco e nero dove trionfa un indice che esplora la corteccia di un albero. Come Padovani, anche Berselli incontra il sottosuolo. Dal marciume della corteccia in decomposizione escono grasse larve pasciute. Ma lo slabbrarsi della corteccia cortocircuita anche verso una direzione erotica. L’autrice consegna a questa esposizione modenese una teoria di sculture in cera che convergono su tematiche ricorrenti. Una ricognizione sulla carne che ne svela allo stesso tempo l’assoluta vulnerabilità ma disegna anche traiettorie di salvifiche partenogenesi, epifanie metamorfiche nelle quali l’incontro con la patologia diventa “chiave bulgara” del sottopelle. Attraverso tracce e impronte di evidenza epidermica, l’occhio autoptico dell’artista ricostruisce l’esistenza dei corpi dai suoi moncherini; perché tutto ruota intorno al reperto: il corpo è il grande assente di cui si specula per fabulazione. Le sue sculture, talvolta aforismatiche, cedono alla fantasia fiabesca laddove l’innesco è inquieto e scandaloso. In contro tendenza alla linea meramente analitica, Berselli afferma con forza la necessità di recuperare la dimensione narrativa del corpo. Berselli rende letterari i frammenti. Sovrapponendo una documentazione anatomica all’artificio artistico, produce la vertigine estetica della reliquia. Sostiamo in bilico, tra perversione e voyerismo, al cospetto delle sue opere che, sempre, urlano una esperienza privata. Perché il corpo racconta il suo male aurorale, ma va anche a modificarne l’assetto. Le sue opere testimoniano la reazione avversa, la risposta “fuori controllo” che talvolta il corpo innesca. Un esempio tra tutti: in esposizione una mano in cera che ripropone la sindrome del canale di Guyon: un tipo di neuropatia che contrae verso il palmo le ultime due dita della mano, che assume perciò la posa che ricorda il gesto benedicente, da cui la sindrome prende il secondo nome. L’opera si colloca in una zona grigia, fra scienza e fede: la lesione dei nervi costringe la mano in una posizione alla quale si attribuiscono significati “altri”, ai quali l’autrice contribuisce innestando una presunta stimmate e dita liquefatte che gocciolano sangue misto ad acqua. Il riferimento al Cristo in croce obbliga il corpo, eterno capro espiatorio, a farsi luogo sacrificale. Ma è dal suo trapasso che risorge. L’arte è corpo che non muore mai.
La legge dei corpi ( Festival Filosofia ). Se è vero che la giustizia ha le sue leggi a regolare le azioni degli uomini, è anche vero che il corpo resta ingovernabile, sottraendosi a gran parte dei precetti della ragione e rispondendo soltanto all’inappellabile legge naturale: la sua fine. Eppure, il corpo non è solo alternanza di vita e morte; in questo lungo trapasso che è l’esistenza, il corpo si trasforma e si racconta. Talvolta inseguendo un sé ideale. Così, tre artiste contemporanee, Berselli, Padovani, Poletti, nelle loro opere indagano “la legge dei corpi”. Corpi che espiano colpe e mutano forma. Poletti dipinge il Mangia Peccati, figura di capro espiatorio che attinge al folklore. Padovani in una installazione occulta il declino organico del corpo grazie al mandibolare degli insetti. Infine, Berselli con la sua scultura vola angelica e androgina verso una de-composizione del mito platonico dell’unità mentre convoca hybris. Le tre si ribellano alle leggi. Per giustizia dei corpi.
Enrica Berselli (Modena, 1984) scolpisce, disegna e dipinge reliquie di corpi in perpetua mutazione attraverso la pelle, luogo simbolico di comunicazione fra ciò che è interno e invisibile e il mondo esterno. Dalla costruzione di riti “cutanei” fissati in opere pittoriche, a frammenti e lacerti di tessuti organici in mutazione in disegni e miniature, fino alle cere anatomiche, l’artista deforma e gioca con le gabbie dell’anatomia e del riconoscibile in favore di un iper-irrealismo a tratti perturbante. Ha esposto in numerose mostre personali e collettive presso Officine dell’Immagine (MI), Palazzo della Penna (PG), Palazzo Durini (MI), Abnormals Gallery (Berlino). Per approfondimenti: www.enricaberselli.com
Alice Padovani (Modena, 1979), laureata in Filosofia e in Arti Visive, dalla metà degli anni ‘90 al 2012 si forma e lavora come attrice e regista nell’ambito del teatro contemporaneo. Il suo linguaggio espressivo spazia dal disegno all’installazione e alla performance. Le sue opere sono state esposte in mostre personali, collettive e fiere d’arte a carattere nazionale e internazionale ricevendo numerosi premi e riconoscimenti, tra cui il Primo premio Scultura al Premio Nocivelli, il premio speciale Galleria Guidi&Schoen ad Arteam Cup, il Biafarinhonor award all’Arte Laguna Prize di Venezia e il Talent Prize di Paratissima Bologna. Le sue opere fanno parte di collezioni private e pubbliche in Italia e all’estero, tra cui il Museo Civico di Modena, la Reggia di Caserta, il Castello di Acaya, il MuDi di Taranto, lo storico Hotel de Crillon a Parigi. Per approfondimenti: www.alicepadovani.com
Federica Poletti (Modena, 1980) è laureata in Arti visive all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Si esprime attraverso la pittura, alla quale si avvicina durante gli studi. È stata allieva del pittore Andrea Chiesi: entrata nel suo studio per affinare la tecnica, ne esce più disciplinata. Negli anni ha esposto in diverse mostre all’estero e in Italia. Di recente è stata protagonista di esposizioni personali da Berlino alla stessa Modena, città in cui vive e lavora. Ha partecipato ad esposizioni collettive in Italia e in Spagna, da Barcellona a Malaga. I suoi lavori sono stati selezionati pervarie edizioni delfestivalfilosofia(2019, 2021, 2022). Finalista al Premio Nocivelli e al Combat Prize, ha vinto il Talent Prize di ParatissimaMilano e l’Art RightsPrize di Hub Art gallery, Milano.Per approfondimenti: www.federicapoletti.com
Immagine di copertina: Enrica Berselli, Reich Gottes Autopoiesi, 2021, cera, pigmenti e Bibbia tedesca