Icona. Sostantivo femminile, immagine sacra, dipinta su legno o lastra di metallo, decorata d’oro, argento e pietre preziose, tipica dell’arte bizantina e russa. È da qui che prende spunto e ispirazione il mio progetto artistico denominato “Icons”: una serie di indici iconici che rimandano all’icona alla quale è dedicato il progetto stesso.
Partendo dall’immagine di una statua del progetto “Ade” che all’interno del lavoro fa parte della serie delle Madonne, ho pensato che alcune immagini potessero avere una valenza iconica. Ho così deciso di sviluppare questa idea e di approfondire il tema dell’icona. Dopo l’intervento che fa sì che l’immagine – riproduzione del reale – entri in una condizione irreale, utilizzo l’applicazione della foglia d’oro per far assumere all’immagine la sembianza di un’icona, come ad esempio le antiche icone russe raffiguranti la Madonna.
La scelta del numero di nove immagini per progetto è un evidente omaggio ad Andy Warhol, che con l’opera delle celebri nove Marilyn sdoganò la figura dell’icona portandola dalla dimensione esclusivamente classica a quella pop. Ad oggi ho sviluppato sette progetti “Icons”: ognuno di essi è composto da nove immagini e ha un indice iconico che si riferisce ad un oggetto/icona. Qui ne vengono rappresentati uno per ogni tema: “Icons I” è l’immagine di una statua che si riferisce alla Madonna, in “Icons II” ho fotografato un peperone come tributo a Edward Weston e in “Icons III” le calle sono un rimando a Robert Mapplethorpe.
“Icons IV” presenta la mela morsicata quale chiara allusione a Steve Jobs, mentre in “Icons V” l’omaggio è a Giorgio de Chirico con Ettore e Andromaca. In “Icons VI” il riferimento è a Vincent van Gogh con l’immagine dei girasoli. Per finire, l’ultima creata in ordine di tempo è “Icons VII” in cui è raffigurata una corona, indiscutibile richiamo alla Regina Elisabetta II, icona degli ultimi due secoli.
Ho iniziato ad usare la tecnica del mordançage quando ho avuto bisogno di trovare un linguaggio per esprimere in opere il primo progetto su tutto ciò che, nella mia fantasia, immaginavo potesse essere “oltre”. Negli anni a seguire ho unito il mordançage ad altre tecniche sperimentali come i chimigrammi e qualsiasi metodologia che potesse essere propedeutica al progetto al quale stavo lavorando, non ultima la contaminazione con altri materiali quali la foglia d’oro, fiori, tessuti, pigmenti ecc.
Il mordançage è una tecnica relativamente giovane: viene scoperta e utilizzata da due fotografi francesi, Jean-Pierre Sudre e Denis Brihat, intorno al 1970, e in seguito fu portata avanti da Elizabeth Opalenik allieva di Sudre e mio punto di riferimento. Il è un insieme di prodotti chimici che diluiti in acqua distillata danno vita a questo composto (altamente tossico) che permette col suo utilizzo di modificare le immagini iniziali e renderle opere uniche. La base di partenza è una stampa analogica in bianco e nero. Tecnicamente il mordançage agisce sull’immagine in due modi: stacca la gelatina fotosensibile dal supporto cartaceo e la sbianca. La gelatina staccata viene manipolata in modo da ottenere il risultato voluto; in un secondo passaggio si deve risviluppare (dato che è stata anche sbiancata), fissare, lavare e asciugare per ottenere l’immagine desiderata. Questa procedura, attraverso la quale si modifica e si sposta la gelatina dove è impressa l’immagine, restituisce dunque la nuova immagine: un’opera unica, originale e irripetibile.
Faccio fotografia perché nel 1983 ho conosciuto Renato Onano che era stato fotografo sugli aerei durante la seconda guerra mondiale. Lui mi disse che esisteva al mondo una “cosa” che si chiamava fotografia. Mi fece vedere, per la prima volta nella mia vita, cosa succedeva ad un foglio impressionato dalla luce quando veniva immerso nello sviluppo: magia! Non ho mai più smesso.
Sono un fotografo perché nel 1992 ho incontrato Vasco Ascolini, maestro di fotografia ma anche di vita. A lui devo tutto quello che è il mio percorso professionale. Ho così iniziato a lavorare per progetti, cercando di esprimere con le fotografie quello che sentivo: il mio percorso fotografico ha avuto principalmente come filo conduttore il limite, la soglia, il confine tra il conosciuto e lo sconosciuto, o se si preferisce tra la vita e la morte.
Il primo tra questi progetti è stato “Le Colonne d’Ercole”. I portali, la vegetazione e le porte chiuse sono gli elementi che caratterizzano questo progetto. La soglia come segno particolare, intesa come passaggio non solo materiale ma anche e soprattutto mentale. I portali sono soglie verso l’ignoto. Le porte chiuse sono barriere mentali al di là delle quali non vediamo e non conosciamo. In seguito, altri progetti hanno preso vita, sempre con il limite come filo conduttore, come i due “Labirynthos” e “Appena prima di…”; quest’ultimo progetto era sviluppato sull’idea dell’attimo appena prima che accada qualcosa. Oltre a questi miei personali progetti, negli anni ho ricevuto diversi incarichi, fra cui quello di MaxMara dal titolo “Via f.lli Cervi, 66 – MaxMara”, o di “Pallas”; per questa vettura mi è stato chiesto di fare un libro e una serie di foto poi esposte dalla Citroën alla Fiera Internazionale d’Arte Contemporanea a Parigi nel 2005.
Negli ultimi tre anni ho iniziato ad affrontare un percorso autoriale indirizzato su differenti progetti in opera unica. Nel mio cammino ho avuto la fortuna di incontrare molti maestri, ognuno mi ha regalato un po’ del suo sapere, li ho tutti ben presenti, alcuni di loro mi hanno cambiato la vita, chi per avermi insegnato tecniche di stampa di alto livello, chi per avermi aiutato ad approfondire il tema, chi per avermi aperto la mente e chi per aver creduto nel mio lavoro mostrandolo al pubblico.
di Cesare Di Liborio – fotografo
A cura di Roberto Besana