L’intimità di una camera da letto con arredi in legno finemente intagliati, un ricercato candeliere d’ottone appeso alle travi del soffitto, drappeggi sfarzosi, un tappeto orientale, elaborati ornamenti alle pareti e due figure in piedi in primo piano, un uomo e una donna, uno accanto all’altra a formare una M maiuscola, che non si guardano ma si danno la mano. Chi sono? E poi uno specchio, un occhio indagatore grazie al quale tutto cambia e che da solo ci mostra non ciò che crediamo di vedere ma ciò che realmente vediamo.
La scena appena descritta è quella di un dipinto molto famoso e pieno di misteri, I Coniugi Arnolfini di Jan Van Eyck, custodito alla National Gallery di Londra, sul quale sono state scritte pagine e pagine, date innumerevoli interpretazioni e sul quale ancora oggi si cercano risposte. Infatti, questo incredibile capolavoro nasce sotto il segno del doppio senso, a partire dalla frase sopra lo specchio che recita: “Johannes de Eyck fuit hic”, ovvero “Johannes de Eyck è stato qui”.
Già ma in quale veste? Come testimone o come protagonista della scena rappresentata?
In basso poi compare anche la data, 1434, unica certezza che abbiamo e che ci permette di sapere l’anno in cui l’opera è stata realizzata e quindi l’anno in cui si svolge la scena che stiamo osservando. Il primo titolo che conosciamo del dipinto è Hernoul-le-Fin con la moglie perciò, data la similarità dei nomi e data la loro comparsa nei registri di conti della corte borgognona, gli studiosi hanno pensato che si trattasse degli Arnolfini, una ricca famiglia di mercanti italiani, originari di Lucca, che prosperava con il commercio della seta e che si stabilì a Bruges, nelle Fiandre, per affari.
Ma quali Arnolfini? Il solo che soddisferebbe le esigenze di luogo e data dettate dal dipinto, sarebbe Giovanni di Nicolao Arnolfini insieme alla moglie.
Quale moglie però? Costanza Trenta, la prima moglie, morì nel 1433, ovvero l’anno prima del dipinto. Giovanni attese pochi mesi e nel 1434 si risposò con Giovanna Cenami. E qui nasce il vero interrogativo: ci troviamo davanti a un ritratto commemorativo della moglie defunta o a uno celebrativo del nuovo matrimonio?
Osservando cosa stanno facendo, notiamo che con la mano sinistra l’uomo, con lo sguardo rivolto altrove, regge la mano destra della donna, il cui palmo è rivolto verso l’alto. Lei, girata di tre quarti con la testa china, tiene gli occhi puntati invece sulla mano destra di lui, solennemente alzata nel gesto del giuramento.
Sono entrambi sontuosamente vestiti: lui indossa un grande cappello nero, un farsetto nero con una lunga sopravveste di velluto viola foderata e bordata di zibellino, delle calze e degli eleganti stivali neri e, al dito indice della mano destra, porta un anello d’oro; lei indossa una veste azzurra con una sopravveste dal lungo strascico di un verde brillante, sul capo porta il velo merlato bianco delle spose e al collo una doppia catena d’oro. Inoltre, con la mano sinistra, sulla quale spiccano due anelli, uno al mignolo e l’altro all’anulare, trattiene le pieghe del vestito raccolte sul ventre facendolo sembrare gravido.
Probabilmente l’uomo giunge dall’esterno ed è appena rientrato in casa e questo lo si evince sia dall’abbigliamento pesante che indossa, sia dal paio di zoccoli ancora sporchi di fango lasciati sul pavimento, che sono ben illuminati da un fascio di luce proveniente da un’altra finestra, visibile solo nello specchio, e che testimoniano le piogge frequenti nel Nord Europa.
Davanti a loro, nel mezzo, un cagnolino; per l’esattezza un griffoncino di Bruxelles dal lungo pelo rossiccio, guarda i due individui apparsi sulla soglia che noi vediamo solo, anche stavolta, attraverso il loro riflesso nello specchio.
Fulcro dell’intera composizione proprio uno specchio convesso, molto in voga all’epoca, appeso alla parete dietro i due protagonisti, uno specchio che ci fa dubitare di ciò che abbiamo davanti a noi, che modifica radicalmente la percezione del dipinto, insomma uno specchio di enigmi. Se lo osserviamo attentamente ci accorgiamo di diverse anomalie: la coppia è riflessa di spalle ma non compaiono, ad esempio, le loro mani unite situate al centro del dipinto, una parte del viso di lei, dato che non essendo in posizione frontale si dovrebbero scorgere la tempia e il corno in cui sono raccolti i capelli, e soprattutto manca il cane.
Si esclude una dimenticanza del pittore poiché Van Eyck vi ha raffigurato la camera con la precisione di un miniatore: ha dipinto il dettaglio del paesaggio scorto dalla finestra, una porta aperta e nel vano due minuscoli personaggi, uno vestito di rosso e l’altro di azzurro, che stanno sulla soglia, nello stesso punto dove ci troviamo noi a guardare la scena. Addirittura, la cornice circolare dello specchio è adorna di dieci piccoli medaglioni, raffiguranti scene della Passione e Resurrezione di Cristo, sui quali l’artista ha reso alla perfezione l’illusione del vetro. Nulla sembra più reale di quel cagnolino con quei suoi occhi che ci fissano, eppure a causa della sua mancanza, la scena della camera e quella dello specchio ci appaiono non sovrapponibili. A quale dobbiamo credere?
Lo specchio può simboleggiare la vista, la vanità ma è anche attributo di verità; è l’unico oggetto che non può mentire e mostra solo la realtà tangibile delle cose e non le illusioni, le visioni o le apparenze. Perciò se il cane non appare, allora significa che è al di fuori della realtà tangibile e, come simbolo di fedeltà, rappresenta l’amore coniugale che sopravvive alla morte. A formulare l’ipotesi che si tratti di un epitaffio in memoria della moglie defunta Costanza Trenta è stata la storica dell’arte Margaret Koster. Secondo questa interpretazione, la donna sarebbe una “revenante”, uno spettro tornato dall’oltretomba dal marito, che porta il lutto, e che non osa girarsi a guardarla ma giura di assolvere i doveri funebri verso colei che è venuta a reclamarli. La mano destra di lui è stata più volte ridipinta dall’artista e, osservandola ai raggi x, appare come tremante e come se passasse dal rifiuto, all’esitazione, alla paura, alla reticenza e infine all’accettazione.
A rinforzare questa supposizione sono alcuni oggetti che compaiono nella camera da letto: un rosario appeso al muro a fianco allo specchio, per pregare per la salvezza delle anime facendolo scorrere tra le dita; una spazzola per la polvere, che ricorda la virtù domestica ma anche la cenere e quindi la morte; un leone, simbolo di Resurrezione nell’arte medievale, è scolpito sulla gamba della sedia gotica dall’alto schienale e spunta dietro la sopravveste verde che la donna accosta al ventre con la mano sinistra; e due mostri seduti, uno rivolto verso il muro e l’altro verso di noi, decorano il bracciolo della cassapanca coperta da un drappo e da cuscini rossi accanto alla sedia e sovrastano la mano destra di lei.
In basso il leone, figura legata al divino, mentre in alto il demone, figura legata al diavolo, come se l’anima della donna fosse contesa tra il bene e il male come le anime del Purgatorio: il demone dall’alto della sua posizione sembra avere la meglio ma il leone è lì che veglia, a rappresentare una possibilità di salvezza. Non mancano neanche i riferimenti al Paradiso come l’albero di ciliegio che si vede fuori dalla finestra aperta, o il vetro superiore della medesima formato da cerchi, che ricordano la perfezione divina, ripetuti e incastonati in un telaio.
Il pregevole candeliere d’ottone, sopra le teste dei due protagonisti, divide il dipinto in due metà: dal lato dell’uomo, una candela accesa simboleggia la vita che arde e la luce della fede; dal lato della donna, le colature di cera attestano che prima bruciava una fiamma ormai consumata.
Inoltre, se guardiamo i medaglioni inseriti nella cornice dello specchio, notiamo che nella parte di lui Cristo è vivo, mentre in quella di lei è risorto e questo denota ancora una volta un presagio di speranza per la salvezza della sua anima.
Infine scolpita sullo schienale della sedia troneggia, in piedi e in preghiera, Margherita di Antiochia insieme al drago, la Santa patrona delle partorienti e la sua presenza, alludendo alla maternità, potrebbe avere una duplice connotazione nell’opera. I segni di una gravidanza avanzata della donna uniti all’evocazione delle ossa divenute cenere, incarnate dalla scopa appesa proprio accanto alla sedia, fanno pensare che il parto possa essere stata la causa della di lei morte prematura; oppure la camera allestita in vista di un parto imminente, questa sedia riservata alla madre per l’allattamento, e la candela accesa a Santa Margherita, come si usava fare per proteggersi dai mali della maternità, fanno anche supporre che possa trattarsi della nuova moglie, Giovanna Cenami. Le pantofole rosse ai piedi della cassapanca, e con esse gli arredi della stanza, potrebbero rimandare simultaneamente alla sposa tornata dall’oltretomba e a una donna che sta per dare alla luce un figlio.
Così ci troviamo davanti a due donne, a due mogli, una morta e l’altra viva. Due ipotesi, due possibilità che ci riportano al doppio senso iniziale, presente in tutto il dipinto e lo lasciano aperto alla libera interpretazione di ognuno. Un’opera senza tempo che racchiude alla perfezione una frase di Jean-Martin Charcot: «Guardare, guardare ancora, guardare sempre, solo così si arriva a vedere.»
Testo e disegni di Sheila Gritti