La Società Geografica italiana apre le porte del suo straordinario patrimonio culturale e presenta la “Collezione Wheeler” conservata nel suo Archivio fotografico. Questa è stata il frutto di un incontro istituzionale tra il Ministero della Guerra degli Stati Uniti d’America e il Sodalizio italiano avvenuto nel 1881. In quell’anno, infatti, si era tenuto, a Venezia il terzo Congresso Geografico Internazionale organizzato, su incarico del Comitato promotore, dalla Società Geografica. Al Congresso presero parte geografi e studiosi di discipline affini provenienti da ogni parte del mondo, ma anche esploratori, civili e militari, che vennero a presentare in quell’occasione il frutto delle loro imprese. Tra questi era presente il Capitano George M. Wheeler, ingegnere e topografo, delegato al Congresso per conto del Ministero della Guerra degli Stati Uniti, che negli anni Settanta dell’Ottocento aveva condotto numerose campagne di esplorazione e di rilevamento geologico ad ovest del 100° meridiano.
Il capitano Wheeler era un personaggio già molto noto, tanto che la Società Geografica Italiana lo aveva nominato socio d’onore nel febbraio del 1880. Wheeler aveva portato con sé una ricca documentazione relativa alle sue spedizioni e, tra relazioni, rapporti informativi, carte topografiche e libri, spiccavano alcuni album di splendide fotografie che vennero esposte nella grande Mostra allestita a margine del Congresso. Si trattava di immagini delle selvagge terre dell’Ovest americano e dei suoi originari abitanti, testimonianze di un mondo di straordinaria bellezza, immerso allora in una solitudine senza tempo e destinato a trasformarsi nel giro di pochi decenni. In larga parte le foto erano state realizzate da un giovane ma esperto fotografo che lo aveva seguito durante le campagne esplorative degli anni 1871, 1873 e 1874: Timothy H. O’Sullivan. Finito il Congresso, il Capitano Wheeler lasciò in dono alla Società Geografica tutto il materiale, comprese le foto di O’Sullivan e Bell raccolte in due album su cui scrisse di suo pugno una dedica datata settembre 1881.
A differenza di quanto era accaduto nelle sue precedenti esperienze, in questa occasione O’Sullivan non dovette svolgere il suo lavoro seguendo esclusivamente le indicazioni dei geologi, ma, grazie alla disponibilità del capo spedizione, ebbe molto più margine di manovra. Per Wheeler, infatti, O’Sullivan era molto più del fotografo della spedizione: spesso gli affidava la responsabilità di piccole escursioni o il compito di provvedere ai rifornimenti o addirittura lo utilizzava come mediatore nei frequenti contrasti tra gli scienziati e i militari del corpo di spedizione. Così O’Sullivan, oltre a canyon, pareti rocciose, forme di erosione, riuscì a immortalare anche paesaggi, boschi, laghi, e soprattutto molti Indiani, malgrado la loro diffusa paura dello “Shadow Catcher” (Cattura Ombre), come chiamavano allora qualunque fotografo di frontiera. Nel 1872, per motivi ignoti, O’Sullivan non prese parte alla nuova spedizione di Wheeler e il suo posto fu preso da William Bell, veterano di guerra e fotografo per alcuni anni dell’Army Medical Museum, che in questa occasione sperimentò con successo nuove tecniche fotografiche come il collodio secco, preparando lui stesso le lastre. O’Sullivan tornò a far parte del gruppo di spedizione di Wheeler ancora nel 1873 e nel 1874. Subito dopo abbandonò per sempre l’impegno sul campo per dedicarsi ad attività più tranquille, ma le sue immagini dei selvaggi paesi dell’Ovest, dal Nevada all’Arizona, dal Colorado al Nuovo Messico, dall’Utah alla California, colti in tutta la loro suggestiva solitudine e bellezza, divennero ben presto degli indimenticabili riferimenti in campo fotografico.
Lo scopo delle spedizioni di Wheeler non era solo quello di acquisire una conoscenza sistematica delle caratteristiche topografiche dei territori dell’Ovest, utile alla compilazione di carte a grande scala, ma anche quello di raccogliere informazioni di qualsiasi tipo, per una eventuale colonizzazione di questa vasta regione. L’area percorsa dalle spedizioni si estendeva per circa 3.700.000 chilometri quadrati, abitati da circa 60.000 Indiani appartenenti a non meno di 33 tribù, e, secondo il censimento del 1880, da 631.000 bianchi, in deciso accrescimento per le continue scoperte di miniere d’oro e d’argento e per il rapido miglioramento dei trasporti ferroviari.
Queste foto vennero viste da molti come una finestra sulla “selvatichezza perduta”. Ma O’Sullivan intendeva quello che intendiamo noi oggi? Nel tempo in cui lui percorreva l’America la presenza dell’uomo e dei suoi segni, quali potevano essere le strade ferrate, apparivano soprattutto come elementi di scala atti a misurare la grandiosità dei paesaggi: erano piccole tracce nell’immensità della natura. L’America era ancora un continente inesplorato, dunque incontaminato. I fotografi insieme ad altri esploratori viaggiavano nella paura della solitudine. O’Sullivan si aggirava per questo territorio sconfinato con l’idea di strappare quelle terre al silenzio e di consegnarle alla “civilizzazione”. Vedeva come una conquista ciò che noi oggi viviamo come una perdita. Negli anni a venire infatti è avvenuto un ribaltamento percettivo che alimenta il mito della selvatichezza, essenzialmente un luogo della mente.
Questi splendidi fototipi, inseriti in diversi percorsi espositivi, fanno parte del ricchissimo patrimonio della Società Geografica italiana che conta oltre al materiale librario più di 200.000 carte geografiche e 400.000 documenti fotografici consultabili nei propri archivi online e naturalmente nella sua splendida sede in Villa Celimontana a Roma.
di Davide Chierichetti e Susanna Di Gioia – Fotografie: Archivio fotografico Società Geografica Italiana