Il poeta persiano Rumi scriveva che “ogni viaggio è una nuova nascita, dove non si rinasce da un grembo, ma dalla terra che calpesti e dal vento che ti guida”. Con alle spalle già settemila chilometri, è tempo di sfilarmi il casco, avvolgere i capelli in un velo e raccogliere i documenti necessari: passaporto, libretto della moto e carnet de passage. Attraversare il confine tra la Turchia e l’Iran è come varcare una soglia che conduce non solo in un mondo intriso di storie millenarie, dove ogni pietra narra di imperi, battaglie, commerci e civiltà fiorite sulle antiche vie della seta, ma anche in una realtà che sfida le nostre percezioni. È un viaggio che ti porta ben oltre le idee di giusto o sbagliato, al di là dei pregiudizi e delle narrazioni filtrate dai media. Ogni persona incontrata rende omaggio alla tradizionale ospitalità di questa terra, rivelando un’umanità che spesso rimane nascosta dietro le notizie. Alle mie spalle, il massiccio dell’Ararat si staglia ancora mentre la strada si arrampica sui Monti Zagros, una barriera naturale che storicamente ha segnato il passaggio tra l’Anatolia e la Persia. Il rombo della mia moto si fonde con il silenzio delle montagne, un suono costante che è diventato un prezioso compagno nelle avventure degli ultimi tre anni.


Tra le prime tappe di questo cammino c’è Soltanieh, con la sua maestosa cupola blu, la più grande costruzione in mattoni del mondo. Costruita nel XIV secolo sotto il regno dell’Ilkhan Oljeitu, è un monumento che parla della magnificenza persiana e della sua capacità di fondere tradizioni locali con l’eredità mongola. La moto rallenta quasi in segno di riverenza mentre mi avvicino alla sua imponenza silenziosa che riflette la luce dorata del tramonto. Passeggiando all’interno del mausoleo, osservando da vicino i dettagli delle sue maioliche blu e le intricate iscrizioni, si percepisce il desiderio di eternità che ha animato la sua costruzione, la volontà umana di essere ricordati. “La grande architettura è in larga misura di questo tipo. Viene in mente Brunelleschi” scrisse Robert Byron ne La via per l’Oxiana quando negli anni Trenta visitò questo luogo.

Proseguo il viaggio raggiungendo Kashan, una perla del deserto iraniano, un luogo abitato da almeno tremila anni. Il sito è stato oggetto di restauro e conservazione che ce l’hanno restituito in tutto il suo splendore antico. Qui, tra le sue case nobiliari, i bazar animati e la splendida moschea di Agha Bozorg con la sua cupola perfettamente simmetrica e i raffinati dettagli architettonici, si respira l’aria di un tempo in cui carovane di mercanti attraversavano la regione cariche di spezie, tappeti e sete. La mia moto riposa, ma io continuo a esplorare: le case tradizionali, costruite sotto il livello del terreno per sfruttare la frescura naturale, offrono un rifugio dal calore soffocante del deserto. Le loro imponenti badgir, le torri del vento, catturano l’aria fresca in alto e la convogliano nelle stanze sottostanti sfruttando l’acqua che scorre lungo i qanat. Un esempio ingegnoso di come l’architettura persiana abbia saputo sfidare le temperature roventi del deserto per secoli e prosperare.

Non lontano da Kashan, il deserto di Maranjab si estende come un mare di sabbia dorata e di ombre allungate delle montagne all’orizzonte, un frammento del più vasto Deserto del Kavir, il Dasht-e Kavir, che domina il cuore dell’Iran. Conosciuto anche come il Grande Deserto Salato, si estende per centinaia di chilometri in ogni direzione, un luogo che non offre tregua, ma che racchiude in sé la bellezza austera e primordiale del deserto.

Testo e fotografie di Francesca D’Alonzo