Jacopo Cardillo, noto ai più come Jago, a 35 anni viene già definito come “Il nuovo Michelangelo” da molti critici d’arte; il soprannome deriva non solo dalla sua ricerca artistica, chiaramente ispirata al Rinascimento, ma anche dal concetto stesso di arte che ha. Nasce a Frosinone, frequenta il liceo artistico e poi l’Accademia di Belle Arti e a soli 24 anni espone una sua scultura alla 54^ edizione della Biennale di Venezia; quest’opera, un busto in marmo di Papa Benedetto XVI, gli ha fatto ottenere la Medaglia Pontificia nel 2010, oltre a numerosi altri premi che ha vinto nel corso della sua carriera. Qualche anno dopo, nel 2016, decide di rielaborare questo busto, rendendo protagonista la liberazione da tutti i paramenti e lasciando il Papa emerito spoglio di qualunque veste o oggetto. La nuova scultura ha preso il nome di Habemus Hominem ed è diventata una delle sue opere più importanti, facendo registrare un record di visitatori quando nel 2018 è stata esposta al Museo Carlo Bilotti a Roma: solo nella giornata inaugurale, infatti, si sono superate le 3500 persone.
Nel 2016 Jago arriva ad avere una sua prima mostra personale a Roma, ma in seguito a un’esposizione a Manhattan decide di trasferirsi a New York dove inizia a scolpire il Figlio Velato, che – come appare chiaro già dal nome – si ispira al Cristo Velato di Giuseppe Sanmartino del 1753. Come il Cristo Velato, conservato nel Museo Cappella Sansevero a Napoli, anche l’opera di Jago è tornata laddove è stata concepita e oggi si trova nella Chiesa di San Severo a Napoli, precisamente nella Cappella dei Bianchi. Che la scelta del luogo sia una coincidenza o un voluto parallelismo ancora non è chiaro. Il Figlio Velato è l’icona delle tragedie passate, presenti e future e fa scaturire una profonda riflessione sul dolore, provocata anche da diverse altre opere dell’artista, tra cui la Pietà; quest’ultima rovescia l’iconografia della Pietà michelangiolesca, ponendo un uomo – un padre, nello specifico – nella posizione della Vergine, mentre sorregge un figlio esanime. L’espressione di straziante dolore che si scorge sul volto è stata ispirata dallo stesso artista che si è posto come modello per la scultura.
Jago è stato anche il primo creativo ad aver mandato una sua scultura di marmo sulla Stazione Spaziale Internazionale; non a caso il nome dell’opera è The First Baby e raffigura il feto di un bambino. L’occasione per l’invio nello spazio di quest’opera è stata la missione “Beyond” dell’ESA del 2019; il bimbo di marmo, la cui immagine mentre fluttua senza gravità è ricca di poesia, è tornato sulla Terra a febbraio 2020 sotto la custodia di Luca Parmitano, a capo della missione e anche lui il primo astronauta ad aver portato una scultura sulla Stazione.
Le più recenti opere di Jago sono Look Down, installata in Piazza del Plebiscito a Napoli a novembre 2020 e la Pietà, collocata a ottobre 2021 all’interno della Basilica di Santa Maria in Montesanto a Roma, nota anche come Chiesa degli Artisti. L’installazione della Pietà in questa Basilica, curata da Tommaso Zijno, si inserisce nel progetto “Una porta verso l’Infinito. L’uomo e l’Assoluto nell’arte”, all’interno del ciclo Arte e Liturgia, promosso dal Rettore Monsignor Walter Insero, che vede nella Chiesa uno spazio di dialogo fra l’arte contemporanea e la spiritualità. Tutte le opere di Jago hanno un significato ben più profondo di quello che si immagina a prima vista e le due ultime opere sono l’emblema di questo concetto: il bambino stanco di Look Down denuncia una situazione drammatica in cui gli emarginati non vengono visti dalle persone, troppo impegnate a guardare solo davanti alla punta del loro naso. Pochi hanno voce in capitolo e molti non hanno la forza per farsi sentire; le nostre menti sono la nostra prigione peggiore. Anche la Pietà ha un sentimento che mira ai più deboli: qualcuno ha voluto ravvisare nell’opera la tragedia di tutti quei padri che hanno perso i figli a causa dei combattimenti o dei naufragi per scappare dalle guerre. L’impotenza di chi non ha strumenti per ribellarsi è denunciata brillantemente dal genio di questo artista.
Jago si ispira al Rinascimento (ma non solo), e la sua continua ricerca artistica sfocia in un’intricata cornice concettuale che fonde il passato con il futuro e soprattutto con il presente; quando scolpisce, spesso partendo da un singolo blocco di marmo, è palese come egli si trovi nel suo habitat naturale, una passione sfrenata di cui nessuno potrebbe mai fare a meno, necessaria come l’aria che si respira. Il fondamentale passo avanti che Jago fa rispetto ai maestri del Rinascimento è quello di comunicare la sua arte nel modo più immediato possibile; è spesso definito “The Social Artist” proprio perché cerca continuamente di instaurare un rapporto con il pubblico che difficilmente si poteva avere nel XV-XVI secolo. Jago con i social e con il suo sito personale condivide video ed esperienze (creative e non) che riguardano tutto il processo produttivo delle sue opere, dal momento in cui le concepisce al momento in cui materialmente le crea. Egli stesso ha più volte dichiarato di non pensare alle sue sculture: lui agisce, crea, con una naturalezza difficilmente riscontrabile oggigiorno. Gli utenti dei social lo amano anche per questo: lui comunica l’arte e la trasmette a tutti, giovani e meno giovani, appassionati e digiuni di bellezza.
Dal 12 marzo al 3 luglio 2022 Roma ospita la sua prima grande mostra, nella suggestiva cornice di Palazzo Bonaparte. Per la prima volta sono esposte tutte le opere che Jago ha realizzato fino ad oggi, e dunque non solo le sculture di marmo: dai piccoli sassi di fiume scolpiti (ad esempio: Memoria di Sé ed “Excalibur) fino alle sculture realizzate durante la pandemia. Grazie a questa esibizione, curata da Maria Teresa Benedetti, è possibile immergersi nel mondo di Jago e nelle sue creature così diverse ma anche così uniche nel loro genere. L’esclusività di questa mostra consiste anche (e soprattutto) nell’unicità di poter vedere l’artista mentre scolpisce e rendere i visitatori partecipi dell’intero processo creativo. Tra le opere, meritano una menzione Venere, priva di giovinezza e della canonica bellezza che le si affibbia sin dall’antichità, e Apparato Circolatorio, che propone una visione in ceramica del battito cardiaco.
di Maria Grazia Cinti – archeologa