Il 23 febbraio 1455, per tradizione, è il giorno che si assume come data del primo libro stampato in Europa
“Perché stampare ancora?”. È una domanda che potrebbe suonare apocalittica agli orecchi di chi la sera è abituato a poggiare un romanzo sul comodino o di chi in metro divora le pagine di un quotidiano, ma che in realtà si disperde alla deriva cibernetica del nostro caro e indispensabile World Wide Web. Forse non sarebbe una domanda così scontata se potessimo chiedere oggi, ad un orafo di Magonza vissuto più di 550 anni fa: “Perché iniziare a stampare?”.
Era il 12 marzo 1455 quando Enea Silvio Piccolomini, futuro papa Pio II, in una sua lettera al cardinale Juan de Carvajal, annotava di aver visto a Francoforte alcuni quinterni stampati: ebbene, si trattava proprio degli esemplari appartenenti alla tiratura della B42, meglio conosciuta come ‘Bibbia di Gutenberg’ e comunemente considerata il primo testo a stampa, sebbene nessun foglio di nessuna delle copie che ci sono pervenute, o di quelle non più in nostro possesso, ma di cui abbiamo notizia da altre fonti, rechino data di stampa e/o nome dello stampatore. La missiva di Piccolomini è un fondamentale elemento datante: costituisce, infatti, il terminus ante quem per cui possiamo dire che la stampa della Bibbia avvenne tra 1452 e 1454. La sua realizzazione, felicemente ascritta al nome di Gutenberg, era però il frutto di una vera e propria impresa economica, che vedeva riuniti in una societas Johannes Gensfleisch Gutenberg (che di fatto ne fu l’ideatore), Johannes Fust (finanziatore) e Peter Schöffer (incisore e calligrafo).
Il primo libro stampato non poteva che essere in continuità grafica e stilistica con il suo antecedente manoscritto: la B42 venne stampata in una scrittura che Piccolomini ricordava per le sue caratteristiche di alta leggibilità («mundissime ac correctisseme litterae»), la cosiddetta textura quadrata, esemplata sul carattere gotico dei manoscritti, che contraddistingueva il testo della Bibbia, e in generale i testi liturgici, soprattutto in area tedesca. Venne stampata in due volumi in folio di circa 300 fogli ciascuno, per un totale di 1286 pagine e l’impiego di ben 299 tipi (secondo i calcoli di G. Zedler). Molte sono le ipotesi riguardanti la tiratura: con buona probabilità vennero stampati 150 esemplari in carta e 30-35 in pergamena. Di questa tiratura originaria oggi sopravvivono 49 esemplari, di cui 37 su carta e 12 in pergamena, e soltanto la copia conservata ad Oxford è completa di tutte le carte, comprese quelle bianche di guardia. Dall’analisi degli esemplari sopravvissuti, alcuni studiosi hanno approntato un calcolo dei lavoranti e dei tempi di allestimento della Bibbia: vennero impiegate circa venti persone per sei mesi di lavoro, senza contare che da un certo punto in poi si decise di affidare la rubricatura ad un calligrafo fornito di una tabula rubricarum, poiché stampare anche parti in rosso richiedeva che il foglio passasse due volte sotto il torchio, dunque un enorme dispendio di tempo.
La denominazione di B42 deriva proprio da una delle caratteristiche strutturali della Bibbia di Gutenberg, stampata in due colonne di 42 linee, appunto. In realtà, anche in questo senso, la Bibbia fu un vero e proprio esperimento tipografico: essa presenta nei fogli iniziali delle colonne di 40 linee, poi di 41 e solo successivamente di 42. La motivazione di questo cambiamento in corso d’opera è più che mai vicina alle esigenze dell’odierna editoria: il problema dei costi editoriali, per cui si cercò di risparmiare carta restringendo il numero delle righe, limando dunque i caratteri senza diminuire l’interlinea, in modo tale che si risparmiasse spazio senza sacrificare la leggibilità del testo. Neppure è un caso che ad essere stampato fu proprio il testo della Bibbia nella versione latina (Vulgata) messa a punto da San Gerolamo nel IV secolo, uno dei pochi testi a carattere internazionale e facilmente vendibile su larga scala. Il bacino di recezione della Bibbia stampata doveva essere prima di tutto l’ambiente accademico, dunque gli istituti teologici e quelli scolastici in generale, il cui orizzonte d’attesa rispondeva ad esigenze di uniformità e correttezza testuale. Nessuna garanzia di uniformità fu maggiore se non quella della produzione in serie: così la B42 fu un successo editoriale, e oggi, dichiarata dall’UNESCO patrimonio dell’umanità, è il volto di una delle più grandi innovazioni che la storia abbia mai conosciuto: la stampa a caratteri mobili.
La stampa a caratteri mobili è l’invenzione che aprì le porte alla modernità
Nessun ragionamento fu più moderno di quello della stampa: puntare sul potenziale di acquisto nel mercato librario, ottimizzare tempi e materiale, ma soprattutto sfruttare la capacità di rapportarsi al passato, alimentando una vitale e necessaria continuità. La stampa taglia il nastro dell’epoca moderna e, pur conservando i caratteri peculiari della propria natura, dimostra di aver saputo fornire la chiave di volta alle odierne tecnologie: recepire le esigenze relative all’epoca e tradurle in strumenti proattivi che risultino bene nella sintesi di un termine: inventio. Se è nell’ordine delle grandi innovazioni introdurre nuovi metodi, nuovi sistemi, ma soprattutto nuove tecniche, è però nella capacità delle grandi rivoluzioni saperne sfruttare i positivi effetti collaterali. E se la portata di una rivoluzione si misura anche dalla sua capacità di durare nel tempo, alla stampa va dato il merito di essere viva tutt’ora e di essere stata prolifica nei suoi 570 anni di storia.
di Ilaria Starnino – filologa