“Tintu è cu ‘un mancia a cassata a matina ri Pasqua”. Così recita un antichissimo proverbio siciliano. Siamo nel 1575 quando – considerando che le monache siciliane preparavano questo dolce prevalentemente nel periodo pasquale –, un documento del Primo Sinodo dei Vescovi di Mazara del Vallo la dichiarava pietanza ufficiale della Pasqua, vietandone severamente la produzione nel periodo della Quaresima per non “cadere in tentazione” a causa della sua prelibata squisitezza. Ma non mangiarlo nel giorno della Pasqua sarebbe stato un “vero peccato” per cui: “Peccatore è colui il quale non mangia la cassata il giorno di Pasqua”.
La nascita di questo dolce risale addirittura al secolo IX quando Palermo, conquistata dagli Arabi, diventa in brevissimo tempo la città più grande d’Europa. I conquistatori intuendo le potenzialità dell’isola importarono numerosi prodotti dalla loro terra: la canna da zucchero, le mandorle, i limoni, i mandarini e le arance amare che insieme alla ricotta siciliana, diedero vita alla regina barocca della pasticceria sicula. La prima versione della cassata era semplicissima. Pare che dal miscuglio preparato da un pastore, costituito di ricotta di pecora e zucchero o miele, sia nato il quas’at, dal nome della scodella tonda e profonda in cui era contenuto. Connubio dal gusto commovente ma di estrema semplicità. Si narra che i cuochi della corte dell’Emiro, in piazza Kalsa, lo utilizzarono come ripieno di una “pasta frolla” che infornarono. Così il quas’at, ossia la prima versione della torta, l’attuale cassata al forno, diventò il dolce ufficiale arabo per oltre duecento anni.
Nel secolo XI con la conquista normanna, la cui politica era fondata sulla tolleranza e conservazione delle opere dei predecessori (fulgido esempio è rappresentato dall’architettura arabo-normanna, un unicum nella storia dell’arte mondiale), la ricetta del dolce fu adottata e migliorata. Venne così sostituita a freddo la frolla araba con la neonata “pasta reale”, composto di farina di mandorle e zucchero colorato di verde con estratti di erbe. Impasto che, ben presto, prese il nome di “martorana”, dal nome del Convento benedettino fatto erigere intorno all’anno Mille dalla nobildonna Eloisa Martorana la quale reinventò la pasta reale nei “fruttini di martorana”… ma questa è un’altra storia. Una versione più attuale si avrà con la dominazione spagnola che nel XVI secolo introduce in Sicilia “l’arte cioccolatiera” e il soffice “pan di Spagna”. Questo composto, morbido e spugnoso, sostituì in parte la copertura di martorana che insieme al cioccolato degli Inca, aggiunto a scaglie alla ricotta, ne esaltò il gusto. In brevissimo tempo anche la cucina risentì dell’opulenta influenza barocca. È il momento dei “canditi” che gli arabi, perfezionando la tecnica della canditura inventata dai romani, portarono e diffusero in Sicilia. L’aggiunta della “glassa” ci porta quasi alla versione conosciuta oggi, ma ancora non siamo di fronte al risultato finale. La forma e la decorazione con la “zuccata o cucuzzata”, preparata dalle abili mani delle suore della Badia del Cancelliere di Palermo, fu codificata e diffusa dal pasticciere palermitano Salvatore Gulì che, in occasione di una manifestazione tenutasi a Vienna nel 1873, la assemblò nel suo centralissimo laboratorio in corso Vittorio Emanuele.
Nonostante la sua storia sia lunga più di settecento anni, solo da un secolo il nome “cassata” indica il dolce in questione. La prima definizione di “cassata” infatti compare nel XIV secolo, nel “Declarus” di Angelo Sinesio, primo Abate del Monastero di San Martino delle Scale di Palermo, autore anche del primo vocabolario siciliano-latino di parole rare; vi si legge: “cassata, cibus ex pasta panis et caseus compositus”, ossia “cassata, composto di pasta di pane e formaggio”. Nel vocabolario etimologico di Michele Pasqualino, edito nel 1785, si definisce “cassata” una specie di torta fatta di ricotta raddolcita di zucchero con rinvolto di pasta anch’essa raddolcita e fatta a forma rotonda. Stessa definizione nel nuovo dizionario siciliano-italiano di Vincenzo Mortillaro nel 1853.
La versione ricoperta di glassa, marzapane e frutta candita si affermerà solo alla fine del XIX secolo e fu proprio Gulì ad usare il termine “Cassata siciliana”, che per incrementarne la vendita la pubblicizzò: “Ricca di ogni sorta di ben di Dio di produzione della casa”. Nasce così un dolce ipercalorico ma irresistibilmente scenografico composto da una rivestimento di pan di Spagna imbibito di liquore con inserti di pasta di mandorle, ripieno di ricotta aromatizzata alla vaniglia arricchito da scaglie di cioccolato, il tutto ricoperto da un’irresistibile composta di glassa di zucchero e decorato con canditi disposti in varie forme geometriche e floreali. Dalla ricetta, apparentemente semplice, nascono diverse interpretazioni nelle diverse province dell’isola. La più famosa è la barocchissima e dolcissima cassata palermitana, segue la messinese meno dolce, la siracusana con più strati di pan di Spagna e senza glassa, la catanese decorata solo con glassa e canditi, la trapanese coperta interamente di glassa verde e formata da vari strati di ricotta variamente colorati e inframmezzati da dischi di pan di Spagna imbibito di liquore; e infine la nissena, diventata un “rollò” contenente gli stessi ingredienti ma con una forma arrotolata tipica solo della provincia. Chiaramente la “Cassata siciliana” è un inno all’evoluzione e all’inesorabilità del tempo: ci sono voluti settecento anni e un lento processo di perfezionamento messo in atto da arabi, normanni, spagnoli, genovesi e palermitani per arrivare sino a noi così perfetta che nessuno osa più modificarla. In verità, gustare una fetta di cassata è come gustare una fetta di storia siciliana!
Testo e illustrazioni di Catia Sardella