Il cammino creativo di Lia Drei (1922-2005) può definirsi uno straordinario ”viaggio nella ricerca”, una ricerca mai sazia, mai doma che ne ha indirizzato i passi nei territori dell’arte, fino alla fine. Due termini, viaggio e ricerca che, nell’intento di delinearne lo spessore artistico e umano sostanziale, risultano complementari: l’uno amplifica le connotazioni storico-culturali proprie di un’esistenza, ne qualifica le coordinate operative che di volta in volta ne hanno caratterizzato il lavoro; l’altro identifica l’assunto conoscitivo fondamentale di un discorso sull’arte, sulle sue categorie gnoseologiche, in un ininterrotto e coerente cercare sempre nuove forme e modalità estetiche da esperire.
Gli studi sulla psicologia della forma e sulla fenomenologia della percezione visiva, mediati dalle teorizzazioni del filosofo francese Maurice Merleau-Ponty, condurranno l’artista alla conquista di nuove strutture della visione, dando di fatto l’avvio a periodi fertili di conquiste linguistiche, di inedite possibilità strutturali di forme e colori; anni in cui, insieme al compagno d’arte e di vita, Francesco Guerrieri, contribuirà alla costituzione del “Gruppo ‘63” e del binomio “Sperimentale p.” (p. sta per “puro”), nato dalla scissione del “Gruppo ’63”, movimenti artistici sperimentali ormai annoverati nella storia dell’arte visiva contemporanea.
In questo fervido contesto sperimentale, Lia Drei dispiega il proprio percorso d’indagine incentrandolo sui rapporti di interazione reciproca di spazio, colore e forme elementari. Sulla superficie della tela, all’inizio del suo viaggio di ricerca, realizza moduli curvilinei essenziali, “operazioni spazio-cromatiche” con il tondo e il semitondo attraverso cui sperimentare la realtà “poetica e gnoseologica” del colore, come spiega l’artista stessa. Sono tutte strutture giocate sui colori primari e sugli accordi o contrasti simultanei con i complementari, in cui il colore si identifica totalmente con la forma.
In una fase immediatamente successiva si aggiungono altre forme primarie quali il quadrato e, in particolare, il triangolo, organizzate in strutture più articolate e complesse. È questo il momento in cui, dalla ricerca iniziale, il lavoro di Lia approda ad una ricerca sulle forme e sul colore inteso come “un atto di luce” (dagli anni ’63-‘64 fino agli inizi degli anni ’70), come lei stessa ebbe ad affermare; «la luce che definisce lo spazio, i corpi, le figure, mediante la tensione verso la quarta dimensione: il tempo» (Maurizio Grande); il tempo che scandisce la comunicazione intersoggettiva tra l’artista e il fruitore reso partecipe dell’efficacia ottico-percettiva dell’opera attraverso la costruzione dinamica delle forme. La sua ricerca è essenzialmente dinamica di relazioni che ha il proprio fondamento rigoroso nella luce; è produzione di relazioni che nella dimensione spazio-cromatica dell’opera costruiscono sempre più articolate geometrie di luce, universi colorati di triangoli che si “muovono” nella spazialità della tela. Le sue opere, nelle successioni di variazioni formali e cromatiche, introducono ad infinite possibilità di fruizione: basta uno scarto tonale, dal caldo al freddo e viceversa, a suggerire nuove percorrenze visive; un cambio di direzione, di posizione o di grandezza a generare eventi percettivi. D’altronde, il colore determina di per sé effetti ottico cinetici e nello stesso tempo induce ad una profonda osservazione della natura. Infatti, nelle sue produzioni, la modulazione delle partiture cromatiche innesca dinamismi, soluzioni compositive attraverso cui «recupera le condizioni di visualità, di visualizzazione estetica del mondo» (Rosario Assunto) aiutandoci a capirlo. Dopo la visione dei suoi quadri, «si potrà capire meglio un prato, la sua struttura visiva, il suo valore estetico».
L’interazione dialettica tra spazio-colore-luce conduce Lia a riflessioni teoriche fondamentali sulla luce che diventa strumento di costruzione dinamica degli spazi e delle forme. In questo contesto operativo, pur guidata da rigore, metodo e tecnica, l’artista riserva a se stessa la libertà di interpretare il mondo, di infrangere, laddove necessario, le stesse regole ottico-percettive che lo costituiscono e ridefinire una propria visione del mondo in cui invenzione e autonomia di ricerca condividono la stessa dinamica dimensione creativa della luce. Così, nell’universo creativo di Lia, può succedere che i cristalli non vengano ricostruiti nella precisione illusoria delle linee spezzate che gli sono proprie, bensì “trasgrediti”, reinventati, attraverso la luce; così diventano cristalli infranti e rigenerati in strutture e forme completamente nuove. Per l’artista, trasgredire le convenzioni codificate è, quindi, libertà d’infrangerle per ricostruire una propria specifica dimensione di ricerca, una propria originale sintassi creativa che le permetta di ristrutturare diversamente il dato reale.
Alla metà degli anni ’70 risalgono lavori che indagano nuove possibilità strutturali dello spazio bidimensionale della tela su cui l’artista agisce operando una riduzione degli elementi formali e cromatici, essenzializzando il linguaggio. La figura geometrica del triangolo appare scarnificata e, svuotata del colore (ridotto a mera citazione), sopravvive come percorso, traccia vettoriale. La linea è interrotta, tratteggiata, compie scarti improvvisi, cambi di direzione, definisce spaziature, ripensamenti, entità mentali che configurano il “quadro” come operazione analitica, riflessione sostanziale che apre a ulteriori spazialità, da cui «nascono percorsi, ritmi, musicalità, mai categoriche, sempre concettualmente indefinite» (Luigi Lambertini).
Dopo queste intense ricognizioni sullo spazio, dopo le riflessioni che ne individuano la mutevolezza, dopo i percorsi che si prolungano e sconfinano oltre il limite del telaio, direttamente nello spazio-ambiente con gli interventi della serie “L’ombra è la pittura della luce”, nei primi anni ‘80 Lia pubblica il libro “Iperipotenusa” con cui racconta l’avventura delle ”sue” forme colorate in una sorta di “scrittura dipinta”. In seguito ritorna alla “pittura dipinta”, come lei definisce la serie di opere attraverso cui, di fatto, irrompe sulle tele lo scorrere delle pagine dello stesso libro, reso nell’impasto denso del colore con cui riannoda nuove storie compositive per i suoi triangoli, coinvolti nella gioiosa sostanza ritrovata della pittura, nel suo amalgama denso e vitale. Poi è un susseguirsi di rimodulazioni e rivisitazioni, di ritorni e ripartenze, sempre scanditi dalla tensione mai placata della ricerca, da libere variazioni in strutture rigorosamente progettate, fino agli ultimi lavori in cui recupera i percorsi di indagine spaziale della seconda metà degli anni ‘70 e di cui scrive «[…] Ora intitolo i miei quadri “Il tempo del sogno” perché quando si dipinge, si scrive o si suona si esprime il sogno che si ha nell’anima. E così il colore diventa una realtà, il pensiero scritto diventa solido e il canto diventa una poesia».
Si veda anche https://www.globusrivista.it/lia-drei-alla-galleria-comunale-darte-di-cagliari/
In copertina: Lia Drei, Tre arancioni, 1968, acrilico su tela , cm 40×120
di Teodolinda Coltellaro – critico d’arte