Marco Réa in mostra fino al 23 aprile con i suoi “Specchi di carta” a Roma, Rosso20sette Arte contemporanea
Lo sguardo fiero, puntato dritto davanti a sé a immaginare un orizzonte inedito, in cui muoversi, lontano dal teatro quotidiano, per dare nuovo ritmo al passo. Oppure l’espressione fiera, nella manifesta soddisfazione – e piena consapevolezza – di essere, “apparire” e soprattutto, forse, sentirsi realmente e finalmente protagonista e regista della propria esistenza, fosse anche solo per il tempo di un’occhiata. O invece, il capo leggermente chino, a raccontare malinconie taciute ma ben presenti, che segnano il viso con rughe di riflessione e dolore, facendosi cicatrici nel silenzio. O ancora, gli occhi chiusi un istante prima del risveglio, per concedersi il lusso, tutt’altro che pigro, di ripensarsi su misura delle proprie fantasie, di ieri e di oggi, seguendo sogni di bambina o magari progetti di donna, sollecitando così nuove storie e proiezioni, nel gioco ininterrotto della costruzione di sé. E del sé.
Sono “specchi” che indagano l’anima, nell’eternità del suo essere, ma anche nell’istante-per-istante del divenire, le opere di Marco Réa, apparenti “grovigli” che, laddove sembrano confondere la forma, di fatto, la rivelano, portando in superficie profondità spesso sconosciute, o comunque non riconosciute, perfino da chi vi è immerso o ne è frutto. Basta seguire la “linea”: il segno corre, a volte, invece si fa lento, si prende la pausa di una curva più morbida, poi si ripiega su stesso, fino a creare un incastro di apparenti moltiplicazioni, che diventa indagine delle sfumature dell’Io, manifeste o invece inconfessate, e progressivamente in questo suo movimento finisce per farsi volto. Non quello di carne e ossa. Bensì, quello più vero, disegnato dall’anima e illuminato dai pensieri.
Nello “specchio”, Marco Réa non cerca – e non mostra – la conferma dell’immagine, va ben oltre, investigando il sentimento che di quell’immagine è motore, a fare un ritratto più intimo e vero del soggetto rappresentato, scoprendo nuove forme e fugaci istanti di bellezza, che rende eterni nell’arte pur mantenendo, concettualmente, la fragilità, attraverso l’uso della carta. Ciò che illustra, di opera in opera, è la storia di una singola figura ritratta, ma, attraverso di essa, anche quella universale dell’essere umano, tra filosofia e sentimento, passioni e tormenti. E sogni. È lì, nell’incoscienza e nel torpore che l’anima trova modo e spazio per liberarsi. È lì, lontana dai condizionamenti di corpo e mente, che acquisisce il coraggio di ammettere i propri desideri, le angosce i timori, anche le passioni però e, chissà, le ossessioni. È lì che si rivela e lì che, al contempo, si nasconde. Dunque, è lì che Marco Réa la va a cercare. Nelle sue opere, la dimensione onirica si fa forma concreta a occupare spazio e sguardo fino a vestire parzialmente di sé la figura. Il sogno, componente dell’anima, lo diventa così anche dell’immagine.
Réa guida l’inconscio fuori dall’ombra e lo porta in primo piano, con tratto e colore, a farne “segno” sulla pelle. I simboli che sceglie per dare corpo a quelle fantasie sono remoti, movimenti della mano prima ancora che vere e proprie forme, gesti che liberano pensieri e sensazioni seguendo un istinto bambino, privo di filtri e sovrastrutture, libera proiezione dell’Io. E in un attento studio della psicologia infantile, Réa traccia nuove linee e disegni, regalando così storia – e storie – ai suoi ritratti. Sono spirali che non si chiudono mai, lasciando aperta la tensione dello spirito all’infinito. E sono simboli identitari, sintesi di forme umane, che ricordano però palloncini affidati al vento, a puntare verso il cielo, al sole. Intimità svelate, in dialogo, tra i singoli ritratti, composti in percorso, e di nuovo con l’osservatore.
In questa ricerca artistica, nata durante la pandemia, più precisamente durante il lockdown, con creazioni eseguite con carta, inchiostro e amuchina, e ora evoluta per tecnica e visione, Marco Réa si ricollega ai lavori precedenti e alla riflessione sull’immagine femminile anche nella moda, ma va al di là, liberando paradossalmente l’immagine da se stessa. I suoi volti sono “mappe” che conservano emozioni, memorie, sentimenti, fantasie, delusioni. Sono ritratti di temperamento e carattere, di eternità e momento. E, in taluni casi, sono monumenti. Così, pressoché ogni opera su carta ha la sua “gemella” sul muro di una città: altro materiale, altre dimensioni, stessa intensità. L’intimo si scopre pubblico, il personale si fa universale, l’ombra scompare nella luce. E, nella potenza della mano dell’artista, il finito si rivela infinito. Nell’istante e nel segno.
di Valeria Arnaldi – giornalista, scrittrice
Marco Réa, artista romano, classe 1975, ha condotto studi artistici dapprima al liceo, poi studiando fumetto ed infine laureandosi in storia dell’arte contemporanea. Per anni è a stretto contatto con la scena del writing romano e dei graffiti. Ha esposto in numerose gallerie in Europa, Stati Uniti, Giappone e collaborato con personalità di fama mondiale come Nick Knight, Kate Moss, Cloe Sevigny ecc. Ospite in più di un’occasione all’Università della Sapienza di Roma e licei artistici italiani, ha tenuto laboratori di street art in scuole medie e centri di aggregazione giovanile. Dal 2005 al 2019 ha portato avanti la sua ricerca artistica definita dall’artista “De Brand” (intervento pittorico sopra manifesti pubblicitari), mentre dal 2020 ha sviluppato un percorso legato alla street art e agli stencil denominato “Grovigli” o line art. Protagonista indiscussa della sua ricerca rimane la donna e i suoi lati più intimi, emozionali e psicologici. Ha eseguito lavori per Disney/Marvel, Fendi, Mondadori Electa, Universal Pictures, Show Studio, Vogue Magazine, Liberty UK, Lampoon Magazine, ecc.