La Chiesa dell’Egitto dei primi tre secoli era attraversata da forti tensioni escatologiche che alimentavano domande sulla prosecuzione della vita oltre la morte, sull’aldilà e sui destini assegnati ai giusti e ai malvagi dopo l’esperienza terrena. Ad alimentare questi interrogativi non era solo l’Apocalisse di Giovanni, con le sue suggestive rivelazioni profetiche sull’ultraterreno, ma anche testi apocrifi di ascendenza giudaica e mediorientale come il Quarto Libro di Esdra, il Libro di Enoch e l’Apocalisse di Pietro, che combinavano visioni e profezie con elementi di natura esoterica.
Attorno alla metà del III secolo, in questo humus composito, fiorì un’opera letteraria scritta in greco e destinata a influenzare tutta la tradizione escatologica tardo-antica e medievale fino al Quattrocento: l’Apocalisse di San Paolo, detta anche Visio Pauli. L’autore, di cui s’ignora l’identità, racconta il viaggio di San Paolo nel Paradiso e nell’Inferno. A guidare l’apostolo nel viaggio ultramondano è l’arcangelo Michele. L’opera fu ispirata dall’esperienza mistica vissuta da San Paolo, e da lui stesso raccontata in terza persona nella Seconda lettera ai Corinzi: “Conosco un uomo in Cristo, che quattordici anni fa – se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito fino al terzo cielo. E so che quest’uomo – se con il corpo o senza corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunziare” (2Cor. 12, 2-4).
di Domenico Condito – saggista
Immagini per gentile concessione della The Parker Library, Corpus Christi College, Cambridge